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Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica - Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology |
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Editoriale Salpietro C1, Corso M1, Ceravolo M D1, Cuppari C1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Osservazione Breve Intensiva: il futuro della pediatria Con il termine Osservazione Breve Intensiva (O.B.I) pediatrica si fa riferimento ad una attività assistenziale, svolta in aree annesse al Pronto Soccorso Pediatrico, con modalità di rapido inquadramento diagnostico-terapeutico. Il termine “intensivo”, difatti, è esclusivamente riferito a meccanismi organizzativi e gestionali tempo-dipendenti e non fa riferimento a requisiti strutturali particolari o al concetto clinico di gravità. L’attività di Osservazione Breve (O.B)/Osservazione Temporanea (O.T), in ambito pediatrico, nasce negli anni Settanta presso i Dipartimenti d’Emergenza degli Stati Uniti per rispondere alla richiesta di razionalizzazione dei costi. In Italia invece, bisognerà attendere l’inizio degli anni novanta: fra i primi l’Istituto Gaslini di Genova che, a seguito delle disposizioni regionali (legge n°549 del 1995) e della delibera dell’Amministrazione n°8 del 1998, prima predispone due posti letto dedicati all’Osservazione Temporanea, poi, con la Delibera n.120 del 17.11.2003, l’attivazione ufficiale di 4 posti letto di Osservazione Breve Intensiva (O.B.I). Tale novità ha rappresentato una vera e propria rivoluzione in ambito sanitario che ha sancito l’inizio di un nuovo approccio all’assistenza del piccolo paziente con l’obiettivo di rendere l’intervento medico più efficace ed appropriato. Ha permesso, inoltre, una ridefinizione delle strutture del Pronto Soccorso non più intese solo come mero “luogo di transito”, bensì come luogo di diagnosi e cura. In O.B.I, vengono ricoverati i pazienti non facilmente inquadrabili nel tempo tradizionalmente dedicato all’attività di Pronto Soccorso (4-6 ore), ma per cui è previsto un tempo di permanenza maggiore. In questo lasso di tempo viene approfondito il percorso diagnostico per arrivare all’appropriatezza del ricovero o alla dimissione in sicurezza. In altre parole presso l’Osservazione Breve Intensiva Pediatrica si selezionano i pazienti che presumibilmente possono risolvere i loro problemi nell’arco di 24-72 ore.
L’OBI risulta essere ottimale per quei casi che da un lato non sono risolvibili o inquadrabili attraverso la semplice visita in Pronto Soccorso, dall’altro non posseggono gravità o complessità tali da rendere necessario il ricovero. In questa ottica si consolida la funzione dell'Osservazione Breve in ambito pediatrico, diffusa ormai in tutti i paesi occidentali, che mira al miglioramento della qualità delle cure erogate ai pazienti, al trattamento dei quadri a complessità moderata e alla conseguente riduzione dei costi sanitari. Nei paesi industrializzati, un problema che accomuna i vari sistemi sanitari è il raggiungimento di un corretto equilibrio tra le risorse economiche disponibili ed il bisogno, da parte della popolazione, di prestazioni sanitarie (costantemente in crescita). L’Osservazione Breve Intensiva (O.B.I) permette di giungere a risultati apprezzabili per il paziente con un risparmio di risorse rispetto ad un pari risultato ottenuto mediante ricovero. Tale dato è suffragato anche dallo studio di Cartabellotta et al. (“Modelli organizzativi alternativi al ricovero ospedaliero per i pazienti con malattie acute” - Evidence published by the Gimbe Foundation) dove è stato evidenziato come nelle unità di OBI vi sia un risparmio compreso fra 567$ e 1.873$ a paziente rispetto al ricovero ospedaliero per il dolore toracico, e un costo medio di 1.203$ rispetto ai 2.247$ del ricovero ospedaliero per l’asma.
I punti salienti, nonché i vantaggi, conseguenti all’introduzione dell’Osservazione Breve si possono così riassumere:
-Riduzione del numero dei ricoveri nei reparti di degenza
-Riduzione delle dimissioni improprie dal PSP
-Riduzione dei rientri al PSP a breve distanza di tempo per la stessa causa
-Breve permanenza in ospedale mediante un rapido percorso diagnostico-terapeutico
-Riduzione dei disagi per bambini e delle relative famiglie
Arrivando ad un’adeguata risposta al fabbisogno di salute in tempi rapidi ed evitando inopportune spese sanitarie.
È stato dimostrato, infatti, che per la maggioranza dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso Pediatrico si giunge ad una definizione diagnostica (sulle necessità di ricovero o di dimissione sicura) in tempo breve. Solo in un 7-10% dei casi è necessario un periodo maggiore di approfondimento e quindi il ricovero presso i reparti di degenza appropriati. Avviare tutti i pazienti ad un ricovero ospedaliero ordinario, senza un congruo periodo di osservazione porterebbe a:
-Dilatare i tempi di diagnosi definitiva
-Ritardare la somministrazione della corretta terapia
-Incrementare significativamente la quota di ricoveri inappropriati e/o non necessari.
In merito a quest’ultimo punto, basandoci sui risultati del Programma Nazionale Esiti 2018 (PNE) è emerso, come in molte regioni italiane, quadri clinici gestibili in regime di O.B.I (ad esempio una gastroenterite acuta) vengano indirizzati ad un ricovero ordinario sfociando cosi in quel gruppo di ricoveri impropri e/o non necessari.
Qui di seguito vengono riportati i criteri di non ammissione in O.B.I: 
Tabella 1. Criteri di non ammissione in O.B.I tratta da “Linee di indirizzo nazionali sull’osservazione breve intensiva – OBI” -Ministero della Salute.
Inoltre l’O.B.I. non deve essere utilizzata come supporto per la gestione di:
-Ricoveri programmati
-Attività eseguibili in regime ambulatoriale o di day hospital
-Carenza di posti letto in altre unità operative in attesa di ricovero
-Pazienti già destinati a dimissione dopo valutazione in Pronto Soccorso.
Quadri Clinici Indicati Per L’ammissione In OBI Di Pazienti Pediatrici: 
L’altro lato della medaglia…
Nonostante i numerosi vantaggi sopracitati dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti. Da un’indagine svolta dalla Società Italiana di Medicina di Emergenza e Urgenza Pediatrica (SIMEUP), su un campione di 188 ospedali italiani in cui è presente una Unità Operativa Complessa di Pediatria, è emerso che l’Osservazione Breve Intensiva (OBI) pediatrica è attiva nel 65% delle strutture. In queste aree però, bisogna osservare che un'assistenza semi-intensiva è possibile attuarla solo in circa il 40% delle strutture. La scarsa possibilità di poter fornire spesso un'assistenza semi-intensiva pediatrica implica il trasferimento di molte patologie, che potrebbero essere assistite in loco, in una struttura di livello superiore con tutte le difficoltà legate agli spostamenti e ai costi correlati. Per cui ancora c’è molto lavoro da fare in Italia sotto questo punto di vista.
Sicilia: una sfida per lo stretto
La nostra sfida inizia nel 2017 presso il Palazzo dei Normanni (Palermo) quando abbiamo presentato alla VI Commissione il progetto “Istituzione Sperimentale dell’Osservazione Breve intensiva Pediatrica nei Presidi Ospedalieri della regione Sicilia” ottenendo l’introduzione dell’OBI a Messina, Catania, Palermo e Vittoria (Ragusa). 
Osservazione Breve Intensiva: l’esperienza Messinese
Grazie al D.D.G. n. 791 del 25.05.2020, tra fine Marzo e inizio Aprile 2020 la nostra U.O.C acquisiva la dicitura “Pronto Soccorso Pediatrico con OBI” motivo per cui presso il Policlinico di Messina è stata predisposta l’attivazione di 6 posti letto di Degenza Breve. Da quel giorno è iniziata la nostra “sfida”. 
Basando le nostre fondamenta su un concetto ispiratore, quello del LEAN THINKING o «Pensare snello» (principio del Toyota Production System) abbiamo cercato di porre al centro di tutto il paziente e, su di esso, individuare le attività necessarie ed eliminare quelle superflue. La filosofia di fondo è «fare di più con meno di tutto»: meno tempo, meno spazio, meno sforzo, meno capitali. Per questo occorre sempre avere una visione centrata sul paziente, che comprenda l’intero percorso amministrativo, diagnostico, terapeutico, assistenziale. Con l’introduzione dell’OBI nella nostra U.O.C ciò a cui volevamo puntare era: da un lato identificare tutte le criticità in termini di sprechi (dovuti ad attese, anomalie, errori, durata del ricovero) e dall’altro aumentare la soddisfazione dei nostri pazienti cercando di ridurre la spesa sanitaria. A distanza di pochi mesi dall’introduzione della nostra OBI Pediatrica abbiamo già raggiunto i primi traguardi. Si riporta di seguito il caso di due accessi al Pronto Soccorso Pediatrico sovrapponibili per patologia, clinica e iter diagnostico-terapeutico con l’unica differenza che il primo caso è stato accolto prima dell’attivazione dell’OBI, mentre il secondo successivamente a quest’ultima .

Tabella 2. Pazienti a confronto prima e dopo l’introduzione dell’O.B.I.
Obiettivi raggiunti:
-Riduzione di un ¼ dei tempi di attesa per esami e consulenze,
-Riduzione di un 1/3 della durata totale del ricovero.
Da quanto esposto fino ad ora si evince come l’Osservazione Breve Intensiva sia una modalità gestionale indispensabile per le strutture di emergenza-urgenza che necessita di un team adeguato ed esperto. Il nostro team è composto da circa 62 tra medici strutturati, personale infermieristico e oss insieme agli specializzandi di pediatria che turnano tra Pronto Soccorso Pediatrico (con 3 stanze per OT), O.B.I (5 posti letto), area infettivologica pediatrica con 2° triage infettivologico (4 stanze di isolamento COVID19) e C.U.P.E.T (Centro Unico Pediatrico Esecuzione Tamponi) supportandosi a vicenda nei momenti più critici.

Figura 2. Pronto Soccorso Pediatrico, CUPET. Policlinico G.Martino Messina.

Figura 3. Team del PS Pediatrico con O.B.I del Policlinico G.Martino, Messina
Bibliografia
1. Guglia E, Messi G, Bassanese S, Norbedo S, Ronfani L, Marchi AG. “Short-stay observation in the Pediatric Emergency Room: a 2003-199comparison”. U.O. Pronto Soccorso e Primo Accoglimento, IRCCS Burlo Garofolo, Trieste, Italy. Minerva Pediatr.2006Aug;58(4):365-72. 2. Guglia E, Marchi AG, Messi G, Renier S, Gaeta G, Canciani M, Canciani G, Pizzul MG. “Evaluation of temporary observation and short hospital stay in a pediatric emergency department”. Servizio di Pronto Soccorso e Primo Accoglimento, IRCCS Istituto per l'infanzia, Trieste. Minerva Pediatr. 1995 Dec; 47(12):533-9.
3. Mace SE. Cleveland Clinic Foundation, Cleveland, Ohio, USA. “Review Pediatric observation medicine”. Emerg Med Clin North Am. 2001 Feb; 19(1):239-54.
4. Levett I, Berry K, Wacogne I. “Review of a paediatric emergency department observation unit”. New Cross Hospital, Wolverhampton, UK. Emerg Med J. 2006 Aug;23(8):612-3.
5. Daly S, Campbell DA, Cameron PA. Short-stay units and observation medicine: a systematic review. Med J Aust. 2003;178:559-563.
6. Cooke MW, Higgins J, Kidd P. Use of emergency observation and assessment wards: a systematic literature review. Emerg Med J 2003;20:138-142.
7. Goodacre SW. Should we establish chest pain observation units in the UK? a systematic review and critical appraisal of the literature. J AccidEmerg Med 2000;17:1-6
Biblioweb:
1. www.ministerodellasalute.it
2. www.simeup.it
3. www.agenas.gov.it/programma-nazionale-esiti-pne
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Editoriale Plebani A1 1Clinica Pediatrica, Università degli Studi di Brescia-ASST Spedali Civili di Brescia
Le immunodeficienze primitive: un viaggio attraverso la storia In molti settori della medicina, si possono identificare delle tappe storiche fondamentali che concorrono a portare le conoscenze di una malattia a un livello superiore con conseguente miglioramento degli approcci diagnostici e terapeutici. E’innegabile che, a questo passaggio di livello, abbiano contribuito in modo indiscutibile i progressi tecnologici, mediati anche da discipline differenti da quelle della medicina internistica, che hanno aperto scenari diagnostici e terapeutici impensabili fino a poche decadi fa. Mi vengono in mente i progressi della radiologia, della chirurgia, della cardiochirurgia, solo per citarne qualcuno. La Pediatria stessa non è rimasta esclusa da questi scenari. Ai progressi delle discipline sopracitate, applicate anche in ambito pediatrico, si aggiungono i progressi tecnologici legati allo sviluppo della biologia e genetica molecolare che hanno contribuito in modo significativo alla comprensione delle basi patogenetiche di molte malattie pediatriche (in particolar modo delle malattie ereditarie) e quindi allo sviluppo di approcci terapeutici più avanzati ed efficaci. In quest’ottica le immunodeficienze primitive rappresentano un esempio illuminante.
Volendo riprendere il concetto delle tappe storiche, per quanto riguarda le immunodeficienze primitive, possiamo identificare tre periodi: periodo clinico, periodo immunologico e periodo genetico molecolare.
Periodo clinico
Aspetti diagnostici
E’ stato quel periodo in cui il riconoscimento delle immunodeficienze primitive si basava essenzialmente sui sintomi clinici e sui pochissimi esami di laboratorio disponibili a quel tempo.
La prima descrizione di un’immunodeficienza primitiva la dobbiamo a Ogden Bruton, un colonnello dell’esercito americano che lavorava al Walter Reed Army Hospital di Bethesda. In questo centro afferivano pazienti complessi privi di diagnosi. Bruton vide un bambino che, a 7 anni, aveva presentato già 19 episodi di sepsi da patogeni capsulati. La sua attenzione venne attirata in particolare dal fatto che in diverse occasioni questi episodi erano causati dallo stesso patogeno, come se il paziente non fosse in grado di produrre anticorpi. Fortuna volle che a poca distanza dal centro dove Bruton lavorava, fosse stata attivata la metodica di Arne Tiselius per la elettroforesi delle proteine sieriche. Si sapeva che gli anticorpi migravano nella frazione gamma del profilo elettroforetico. Venne quindi inviato un prelievo di sangue e la risposta fu: manca il picco gamma! Fu così descritta e pubblicata la prima forma di immunodeficienza primitiva denominata agammaglobulinemia (1). 
Figura 1A. Prime descrizioni del profilo immunologico associato a condizioni di aumentata suscettibilità alle infezioni con differenti gradi di gravità.
Siamo nel 1952. Pochi anni dopo altri casi analoghi vennero riportati e definiti come agammaglobulinemici. In alcuni di questi pazienti, la metodica dell’immunofissazione utilizzata al posto della elettroforesi proteica, mostrava la presenza di un picco di precipitazione di 19S (2). 
Figura 1 B. Prime descrizioni del profilo immunologico associato a condizioni di aumentata suscettibilità alle infezioni con differenti gradi di gravità.
Un profilo immunologico quindi diverso da quello dell’agammaglobulinemia descritta da Bruton, pur in presenza di una sintomatologia clinica sovrapponibile. Più o meno negli stessi anni, vennero descritti alcuni pazienti con marcata distrofia e gravi infezioni da patogeni opportunisti ad esordio precoce già a partire dai primi mesi di vita e destinati a morire nel primo anno di vita (3,4). 
Figura 1C. Prime descrizioni del profilo immunologico associato a condizioni di aumentata suscettibilità alle infezioni con differenti gradi di gravità.
Questi pazienti, a differenza di quelli sopra citati presentavano una linfopenia, in alcuni casi associata ad agammaglobulinemia. Si cominciava a percepire l’idea dell’esistenza di profili immunologici differenti in pazienti classificati come agammaglobulinemici, in altre parole di forme di immunodeficienze differenti, nelle quali la differenza clinica, in quanto a gravità, la faceva la presenza o meno di linfopenia. Il ragionamento clinico si avvaleva di pochissimi esami di laboratorio, quelli disponibili in quel tempo. Si era in un periodo storico in cui poco o nulla si conosceva del sistema immunitario: i linfociti T ed i linfociti B non erano ancora stati identificati e la metodica per il dosaggio delle immunoglobuline sieriche non era stata ancora descritta.
Aspetti terapeutici
In questo periodo storico si colloca il trattamento sostitutivo con immunoglobuline come terapia per le immunodeficienze caratterizzate principalmente da una difettiva produzione di anticorpi e per le forme più gravi ad esordio precoce dove l’assente produzione di anticorpi si associa ad una linfopenia. Per queste ultime forme il trattamento con immunoglobuline ha il significato di una terapia di supporto essendo il trattamento di elezione il trapianto di midollo osseo.
Le immunoglobuline utilizzate come terapia sono state ottenute dal plasma di donatori dopo frazionamento con la metodica di Cohn (5,6). Attraverso questo processo di frazionamento, il cui scopo principale era di ottenere una frazione arriccchita in albumina, si arrivava ad un prodotto (frazione II di Cohn) considerato di “scarto”, che conteneva gran parte delle immunoglobuline e che è stato utilizzato come prodotto base per la terapia sostitutiva.
Il trattamento sostitutivo con immunoglobuline fu praticato inizialmente per via sottocutanea (le prime somministrazioni effettuate da Bruton nel 1951), quindi per via intramuscolare (nel 1953-1954), per passare poi alla via endovenosa (a partire dagli anni 80), per poi ritornare alla via sottocutanea dal 2006 (7,8). 
Figura 2. Principali tappe storiche dell’uso delle immunoglobuline umane come terapia sostitutiva nelle immunodeficienze primitive (IM via intramuscolare; IVIG via endovenosa; SC via sottocutanea settimanale, f-SC via sottocutanea una volta al mese). I nuovi preparati somministrabili per via sottocutanea, ugualmente efficaci rispetto a quelli somministrati per via endovenosa, hanno il vantaggio di consentire al paziente una maggiore autonomia di somministrazione (anche domiciliare). La via sottocutanea ed endovenosa di somministrazione rappresentano tuttora le vie maggiormente utilizzate.
Naturalmente dai tempi di Cohn e Bruton, la produzione dei preparati di immunoglobuline, sia per uso endovenoso che sottocutaneo, è andata incontro a processi di preparazione migliorativi sia per quanto riguarda l’efficacia che la sicurezza
Periodo immunologico
Aspetti diagnostici
Un passo significativo verso una migliore classificazione delle immunodeficienze primitive, che si andavano man mano descrivendo e che presentavano profili immunologici diversi sulla base delle metodiche utilizzate e disponibili in quel periodo, si ha nel 1965 con la descrizione da parte di Mancini e Carbonara, della metodica della immunodiffusione radiale che ha consentito il dosaggio delle singole classi di immunoglobuline sieriche (IgG, IgA e IgM) (9) e da parte di Max Cooper (10) della descrizione nel pollo di due organi linfoidi: il timo e la borsa di Fabrizio da cui originano rispettivamente i linfociti T ed i linfociti B. Organi linfoidi analoghi si è visto essere presenti anche nell’uomo, con il midollo osseo come equivalente della borsa di Fabrizio. Subito si comprese l’importanza di queste cellule nella difesa contro le infezioni e l’importanza di una loro valutazione in presenza di aumentata suscettibilità alle infezioni come nei casi soprariportati. 
Figura 3. Dosaggio quantitativo delle immunoglobuline sieriche (IgG, IgA e IgM) in immunodiffusione radiale. In una capsula Petri si versa dell’agarosio con incorporatouno degli antisieri specifici (anti IgA, anti IgG o anti IgM). Nel pozzetto centrale si depone il campione di siero da analizzare (1). Si lascia diffondere il tutto per una settimana (2 e 3) e si misura l’anello di precipitazione il cui diametro è proporzionale alla quantita di immunoglobulina presente nel siero (4).
Si trattava di sviluppare metodiche che consentissero di identificarli e di enumerarli nel sangue periferico. La scoperta che i linfociti T avevano la capacità di legare i globuli rossi di montone e che i linfociti B esprimevano immunoglobuline di superficie, ha portato allo sviluppo della tecnica delle rosette E (linfociti T) e della immunofluorescenza di membrana (linfociti B) per la loro identificazione ed enumerazione. 
Figura 4. Le cellule mononucleate del sangue periferico vengono incubate con globuli rossi di montone o con un antisiero fluorescinato diretto contro le immunoglobuline di superficie. I linfociti che formano rosette corrispondono ai linfociti T, quelli che risultano fluorescenti corrispondono ai linfociti B. Si possono così contare.
La scoperta che i linfociti B esprimevano sulla loro superficie il recettore per il complemento ha consentito di contarli anche attraverso la metodica delle rosette EAC. In questo caso i globuli rossi di montone (ma anche umani), sensibilizzati con un antisiero diretto contro di loro, vengono incubati con il complemento. Il complemento viene così attivato e prodotti di degradazione del complemento si depositano sulla superficie del globulo rosso consentendo ai linfociti B, che esprimono il recettore per il complemento, di formare rosette EAC e quindi la loro enumerazione (11,12). Ora sappiamo che il CD19, molecola espressa dai linfociti B, è il recettore per il C3d e che la formazione delle rosette EAC avviene attraverso l’interazione CD19 con il C3d depositatosi sulla superficie del globulo rosso. Sappiamo inoltre che i linfociti T formano rosette E attraverso la molecola del CD2 espressa sulla loro superficie. Si tratta di metodiche, poco note alle generazioni più giovani, che presentavano diversi limiti: si impiegavano ore per leggere centinaia di linfociti nella camera di Burker, da cui derivare la percentuale di quelli che formavano rosette E e di quelli che formavano rosette EAC o risultavano fluorescenti dopo incubazione con un antisiero fluorescinato anti immunoglobuline umane. Metodiche che, per la laboriosità della loro esecuzione, davano luogo a risultati non sempre riproducibili e frequentemente a dubbi interpretativi, ma soprattutto non consentivano di identificare le varie sottopopolazioni linfocitarie. Infatti con l’identificazione del timo e del midollo osseo come sorgente rispettivamente dei linfociti T e B, negli anni 70 erano iniziati una serie di studi di immunologia di base che avevano permesso di identificare, nel timo e nel midollo osseo, vari stadi di differenziazione e maturazione che davano luogo a diverse sottopopolazioni linfocitarie con funzioni differenti. Queste sottopopolazioni erano caratterizzate dall’espressione sulla superficie cellulare di differenti marcatori che non potevano essere identificati con le tecniche delle rosette E, EAC e dell’immunofluorecenza, ma la cui identificazione era potenzialmente importante per una più aggiornata classificazione delle immunodeficienze che si andavano man mano descrivendo.
L’impiego della tecnica delle rosette E, EAC e dell’immunofluorescenza si può dire abbia rappresentato l’anticamera del periodo immunologico delle immunodeficienze, periodo nel quale si è entrati definitivamente con la produzione degli anticorpi monoclonali, mediante la metodica che ha valso il premio Nobel agli autori (13). Con questa metodica si è potuto disporre di anticorpi monoclonali diretti contro numerosi marcatori differentemente espressi dai linfociti T e dai linfociti B (ma anche dalle cellule NK) nelle varie fasi di differenziazione e maturazione, marcatori raggruppati in “Cluster Differentiation” (CD) in accordo con quanto stabilito da una commissione di esperti durante il Sixth International Workshop and Conference on Human Leukocyte Differentiation Antigens (14). Da questo convegno in poi, in realtà anche da analoghi Workshops svoltisi precedentemente, le varie sottopopolazioni linfocitarie sono state identificate sulla base della espressione dei differenti antigeni di superficie utilizzando la terminologia CD (es. CD4+; CD8+), che ha sostituito la precedente, nella quale la stessa popolazione linfocitaria veniva identificata con l’anticorpo monoclonale prodotto da una determinata azienda (es. Leu 3, OKT 4, T 4, per le cellule CD4+; Leu 2, OHT 8, T 8 per le cellule CD8+). L’impiego degli anticorpi monoclonali in citofluorimetria ha così consentito una più rapida e definitiva caratterizzazione dei difetti primitivi dell’immunità umorale e dei difetti primitivi dell’immunità cellulare, questi ultimi definiti anche come immunodeficienze combinate. 
Figura 5. Profilo citofluorimetrico per l’identificazione delle principali categorie di difetti immunitari (difetti dell’immunità umorale e dell’immunità cellulare) attraverso la conta delle popolazioni linfocitarie con anticorpi monoclonali.
Quindi, con l’identificazione di un numero sempre maggiore di marcatori di differenziazione e maturazione di queste linee linfocitarie, in virtù della disponibilità di nuovi anticorpi monoclonali in grado di rilevarli, è stato possibile suddividere ulteriormente le immunodeficienze umorali e cellulari in numerose altre forme di immunodeficienze a seconda delle anomalie nella distribuzione delle sottopopolazioni linfocitarie evidenziate attraverso l’analisi di un immunofenotipo esteso (Tabella I).  Tabella I. Immunofenotipo delle principali sottopopolazioni dei linfociti T e B durante le varie fasi di differenziazione e maturazione.
Aspetti terapeutici
E’ di questo periodo lo sviluppo di terapie cellulari quali il trapianto di midollo osseo, effettuato, con esito positivo, per la prima volta dal gruppo di Robert Good su un paziente di 5 mesi con linfopenia, gravi infezioni e una storia familiare di decessi per infezioni nel primo anno di vita (15). Una immunodeficienza che oggi definiremmo combinata grave. Il donatore fu la sorella compatibile. La somministrazione di immunoglobuline in questi pazienti è solo una terapia di supporto, efficace solo nei confronti di patogeni extracellulari e non di patogeni intracellulari quali i virus, i funghi ed i patogeni opportunisti, microorganismi responsabili della maggior parte di gravi infezioni mortali di cui questi pazienti soffrono. Si è trattato di un intervento pionieristico che ha aperto la strada alla cura/guarigione di queste forme di immunodeficienze altrimenti mortali, basata sulla osservazione, suffragata già da alcuni dati preliminari, che precursori linfoidi del midollo osseo di un donatore preferibilmente compatibile, vadano a popolare il timo e il midollo osseo del ricevente differenziandosi quindi in linfociti T e linfociti B maturi e funzionali. Il razionale ha funzionato e l’esperienza successiva ha portato a migliorare le tecniche di trapianto e di selezione di donatori sempre più idonei, al fine di ridurre possibili complicanze da trapianto, principalmente riconducibili ad una “graft versus host disease”, mancato attecchimento o rigetto del trapianto stesso (16).
Periodo genetico-molecolare
Aspetti diagnostici
L’impiego degli anticorpi monoclonali ha contribuito a migliorare le possibilità diagnostiche e consentito di formulare una classificazione più aderente ai tempi. Tuttavia non si era ancora in grado di rispondere alla domanda successiva: quali sono le basi patogenetiche di queste malattie che spesso hanno lo stesso fenotipo immunologico ma presentano sintomi clinici differenti. La risposta a questo quesito è stata resa possibile da due progressi scientifici: la scoperta della polimerase chain reaction (PCR) (17), che ha valso il premio Nobel agli autori e che ha consentito di amplificare il DNA rendendone disponibili quantità sufficienti per il sequenziamento, e la decifrazione del genoma umano (18,19). Con l’applicazione delle tecnologie derivate da queste scoperte si è entrati nel periodo genetico-molecolare delle immunodeficienze primitive, periodo nel quale sono stati descritti i difetti genetici di molte di queste malattie. Ciò è stato reso possibile attraverso l’analisi in linkage e dei geni candidati. Con l’analisi in linkage, avendo a disposizione fratelli sani del soggetto malato, è possibile, attraverso dei marcatori genetici, identificare il locus che si trasmette con la malattia (20). 
Figura 6. Esempio di applicazione dell’analisi di linkage per l’identificazione del gene difettivo. Utilizzando dei marcatori genetici è possibile identificare il locus che si trasmette con la malattia. Questo locus, all’interno del quale si colloca il gene responsabile della malattia, si caratterizza per la presenza, nei soggetti affetti, degli stessi marcatori (indicati con numeri). L’esempio riportato si riferisce alla identificazione dell’immunodeficienza da mutazione di LRBA (voce bibliografica n.20). All’interno di questo locus vi erano più di 80 geni. Sarebbe stato poco fattibile sequenziarli tutti per trovare il gene difettivo. Tra questi 80 geni vi era anche il gene LRBA che nel modello murino dava lo stesso fenotipo immunologico dei pazienti in studio. E’ stato quindi sequenziato LRBA che è risultato mutato nei pazienti affetti e non nei soggetti sani della stessa famiglia. Esempio di combinazione tra analisi in linkage e di geni candidati.
All’interno di quel locus è probabile si trovi il gene difettivo. Tuttavia, se in quel locus vi sono molti geni, in assenza di indicazioni specifiche, derivate da modelli murini o da studi di immunologia di base che orientino verso la selezione del gene che con maggior probabilità può essere causa della malattia, si dovrebbe, potenzialmente, sequenziare tutti i geni presenti nel locus identificato. Come cercare l’ago in un pagliaio, lavoro lungo e costoso. Nel caso l’analisi in linkage non possa essere applicata per mancanza di familiari informativi, si può procedere attraverso l’analisi di geni candidati. Faccio un esempio: si sa che il complesso del pre-BCR/BCR (B Cell Receptor), composto da diverse componenti proteiche (catena μ, catena λ5, catena VpreB, catene Igα e Igβ), è importante per la differenziazione e maturazione dei linfociti B. Tutti questi geni possono essere considerati quindi geni candidati in un paziente con agammaglobulinemia e assenza di linfociti B circolanti che non presenti mutazioni di BTK. E’ attraverso l’analisi dei geni candidati che il nostro gruppo ha descritto il primo paziente con agammaglobulinemia ed assenza di linfociti B circolanti da mutazioni del gene che codifica per la catena Igβ del BCR (21). Allo stesso modo, se un topo knocked-down per un determinato gene, presenta un fenotipo immunologico simile a quello osservato in un paziente con una immunodeficienza primitiva, quel gene può essere considerato un potenziale gene candidato di malattia anche nel paziente. Si tratta comunque sempre di indagini ad esito incerto, costose e che richiedono tempo.
Sempre partendo dalla la scoperta della PCR e dal sequenziamento del genoma umano, si sono rese successivamente disponibili tecnologie ancora più avanzate che vanno sotto il nome di NGS (Next Generation Sequencing) tramite le quali è possibile analizzare contemporaneamente un pannello di geni (fino anche ad un centinaio) che si sa essere associati ad un fenotipo immunologico specifico quali ipo/agammaglobulinemia, linfopenia, difetti dell’immunità innata (es. neutropenia), o a quadri clinici caratterizzati da aumentata suscettibilità a singoli patogeni (micobatteri, patogeni capsulati, Candida, Herpes, ecc…). Qualora il risultato dell’analisi di singoli pannelli risulti negativo, si può procedere attraverso la WES (Whole Exome Sequencing, sequenziamento di tutti gli esoni) o la WGS (Whole Genome Seguencing, sequenziamento di tutto il genoma, introni + esoni) (22,23). L’abbattimento del costo di queste metodiche di NGS e la maggiore rapidità di analisi di un numero elevato di geni, le rende competitive rispetto al sequenziamento anche di un singolo gene candidato o all’analisi in linkage, e vengono sempre più utilizzate sia a fini diagnostici che di ricerca. La rapida diffusione di queste metodiche è documentata dal fatto che, a partire dal 2001, anno in cui il genoma umano è stato sequenziato, il numero di nuove forme di immunodeficienze primitive (attualmente etichettate con il termine più appropriato di IER: Inborn Errors of Immunity), delle quali è stato identificato il difetto genetico, è salito a più di 400 secondo la recente classificazione del 2020 del IUIS (International Union of Immunological Societies) nella quale questi difetti vengono raggruppati in categorie. Il dato è anche più sorprendente se il confronto viene fatto con il periodo prima del 2001 (24, 25). 
Figura 7. A. Numero dei geni associati ai difetti primitivi dell’immunità come riportato nelle varie edizioni della classificazione di queste malattie da parte dell’IUIS; B. Numero dei geni responsabili dei difetti congeniti dell’immunità, suddivisi per categorie, come da ultima classificazione del 2020 (voci bibliografiche 24 e 25).
L’identificazione del difetto genetico ha delle ricadute importanti, non solo in termini scientifici, ma anche in termini di diagnosi e di assistenza ai pazienti e ai familiari. Ha infatti consentito di identificare all’interno di un gruppo omogeneo di immunodeficienze, definito omogeneo sulla base del fenotipo immunologico, ma non necessariamente sulla base del fenotipo clinico, malattie differenti, che possono beneficiare di trattamenti più personalizzati. L’ipogammaglobulinemia comune variabile ne è un esempio. Questa immunodeficienza si caratterizza da un punto di vista immunologico per bassi valori di immunoglobuline sieriche in presenza di linfociti B circolanti in numero normale ma poco funzionali. Da un punto di vista clinico, al contrario, si presenta con sintomi diversi: in alcuni individui prevalgono sintomi infettivi, in altri sintomi di autoimmunità, in altri ancora si ha coesistenza di entrambi. Un dato apparentemente paradossale perché solitamente una condizione di immunodeficienza si associa ad una condizione di ipofunzione del sistema immune, mentre la presenza di manifestazioni autoimmuni, a una condizione di iperattivazione. Come spiegare la coesistenza di questa variabilità nello stesso individuo? La risposta è venuta dalla identificazione in questi soggetti di mutazioni in geni (es. CTLA-4, LRBA, PIK3CD, PIK3R1….) che sono coinvolti oltre che nella difesa contro le infezioni anche nelle operazioni di spegnimento del sistema immune dopo attivazione (omeostasi del sistema immunitario) (26). Conoscere il difetto genetico ha consentito, da una parte, di considerare l’ipogammaglobulinemia comune variabile non come una singola immunodeficienza, ma come un insieme di immunodeficienze differenti, e dall’altra, di sviluppare delle strategie terapeutiche “personalizzate” mirate a correggere il difetto della specifica proteina mutata, attraverso lo sviluppo di farmaci costruiti ad hoc. Al riguardo, l’identificazione del difetto genetico della adenosina deaminasi, responsabile di una immunodeficienza combinata, ha consentito di sviluppare una terapia sostitutiva con l’enzima normale, terapia che ha rappresentato l’anticamera delle terapie successive, più risolutive, come il trapianto di midollo osseo e la terapia genica. Considerazioni analoghe si possono fare per altre forme di immunodeficienze primitive (vedere nel successivo paragrafo “Aspetti terapeutici”). L’applicazione delle metodiche di NGS, hanno anche permesso di ampliare lo scenario della variabilità clinica associata a mutazioni dello stesso gene. Un esempio per tutti. Sappiamo che mutazioni di RAG1 e di RAG2 danno luogo ad un difetto del riarrangiamento dei geni per il TCR (T Cell Receptor) e per le immunoglobuline e si associano ad una immunodeficienza combinata grave. L’analisi con NGS in pazienti che non avevano un fenotipo clinico-immunologico da indurre il sospetto di un difetto di RAG1/2, ha al contrario, evidenziato la presenza di mutazioni di questi geni in pazienti con un fenotipo di immunodeficienza comune variabile, agammaglobulinemia, immunodeficienza con Iper IgM, sindrome IPEX-like o addirittura asintomatici (27,28,29,30,31). E’ quindi molto probabile che con un maggiore impiego di queste tecniche a scopo di diagnosi e/o di ricerca si ampli lo scenario clinico associato a mutazioni dello stesso gene, con quadri diversi da quello originariamente descritto. Il problema che si porrà è come comportarsi da un punto di vista terapeutico. Torniamo all’esempio di mutazioni di RAG1/2. Mutazioni di questi geni configurano una condizione di immunodeficienza combinata per la quale il trattamento elettivo è il trapianto di midollo osseo. Ma per le forme ad espressività clinica meno grave, varrà lo stesso trattamento? Rimane un interrogativo al momento senza risposta. Una risposta la si dovrà trovare, anche con una certa urgenza, in un futuro non molto lontano, perchè quanto applicato a mutazioni di RAG può applicarsi a mutazioni di altri geni ciascuno dei quali può dar luogo a quadri clinici differenti.
E’ di questo periodo lo sviluppo di tecnologie di tipo molecolare con potenziale applicazione negli Screening neonatali di massa con lo scopo di identificare precocemente quelle forme di immunodeficienze combinate gravi che possono trarre vantaggio da un trattamento precoce e risolutivo come il trapianto di midollo osseo (32).
Aspetti terapeutici
E’ il periodo dello sviluppo della terapia genica per il trattamento di alcune forme di immunodeficienza: immunodeficienza combinata da difetto di adenosina deaminasi, immunodeficienza combinata X-recessiva da difetto della γc (gamma chain) del recettore della IL-2 e non solo, della malattia granulomatosa cronica, della sindrome di Wiskott Aldrich, del difetto delle proteine di adesione come alternativa al trapianto di midollo osseo qualora un donatore compatibile non sia disponibile (33,34). La terapia genica consiste nel trasferire nelle cellule staminali del paziente, attraverso un vettore retrovirale, il gene normale. Questo andrà ad inserirsi nel genoma delle cellule staminali in modo casuale. Le cellule trasfettate vengono quindi reinfuse nel paziente, si localizzano negli organi linfoidi primari e, una volta differenziatisi in linfociti maturi, daranno luogo alla produzione della proteina normale. Si otterrà così la ricostituzione del sistema immune. I dati attualmente disponibili sono promettenti e i miglioramenti della tecnologia stessa e delle procedure applicate, hanno consentito di superare alcuni effetti collaterali dovuti all’inserimento del gene normale in corrispondenza di oncogeni che attivati, hanno dato luogo nei primi trials effettuati nella forma di immunodeficienza combinata X-recessiva, allo sviluppo di tumori ematologici.
Questo periodo è anche caratterizzato dallo sviluppo di terapie farmacologiche mirate a vicariare il difetto genetico. Vale la pena ricordare l’impiego di Abatacept (una molecola di fusione tra CTLA-4 e Ig) per il trattamento di immunodeficienze da difetto di CTLA-4 e LRBA (35), o di trials sperimentali con inibitori di p110 per il trattamento di APDS (activated PI3K syndrome) (36). Si tratta in questo ultimo caso di mutazioni “gain of function” che attivano la proteina mutata. Nei casi di mutazioni “gain of function” la terapia genica non trova indicazione, mentre potrebbe trovare maggiore indicazione una terapia basata sul “gene editing” che consiste nel sostituire il singolo nucleotide, o l’intero gene mutato con la metodica della CRISPR-Cas9 che sembra molto promettente (33,34).
Riflessioni finali (o a margine?)
Mentre stavo scrivendo questo articolo ho avuto bisogno in più occasioni di consultare lavori della letteratura per verificare la correttezza di alcune frasi che avevo scritto o per trarne spunto per sviluppare alcuni concetti. Accesso a Pubmed per recuperare l’articolo e lettura (veloce) alla ricerca della frase o del paragrafo che mi poteva essere utile, il tutto in più o meno 20 minuti. Questa modalità di ricerca è stata da me applicata in modo del tutto automatico e naturale come se avessi dimenticato di far parte di una generazione che aveva sperimentato modalità di ricerca bibliografica molto meno efficienti.
Avevo quasi dimenticato che, nel periodo in cui avevo cominciato a scrivere i primi lavori, quindi, qualche decade fa, molto prima dell’era dell’informatizzazione, la ricerca di voci bibliografiche utili per la scrittura di un lavoro, avveniva attraverso la consultazione dell’Index Medicus. Si trattava di una serie di libroni polverosi con le pagine sottili come carta velina, scritti con un carattere molto piccolo e quindi che mettevano alla prova prima la vista del cervello….. Una volta trovata la referenza bibliografica bisognava verificare se quella rivista era presente nella biblioteca dell’Istituto. In caso positivo era il bibliotecario a recuperarla. La si poteva consultare solo in biblioteca e non sempre era possibile fare la fotocopia dell’articolo. Nel caso la rivista non fosse disponibile bisognava chiederla in prestito presso altra sede. I 20 minuti dell’epoca della informatizzazione diventavano giorni per non dire settimane…. Però, l’articolo ottenuto dopo tanta fatica, veniva letto avidamente più e più volte cercando di immagazzinare nella mente il maggior numero di informazioni, prendere appunti, qualora fosse possibile solo la consultazione della rivista. In fondo, per stare in tema, possiamo associare il periodo della ricerca bibliografica con Index Medicus al periodo clinico delle immunodeficienze primitive mentre la ricerca informatizzata degli articoli al periodo genetico molecolare. Il denominatore comune è l’aumento vertiginoso della velocità necessaria a ottenere il risultato. Non potrebbe essere diversamente, salvo il rimanere indietro e in ambito medico questo non è accettabile. Certo, in questo contesto, viene in qualche modo penalizzato il contributo individuale. Ai nostri giorni è la tecnologia che ci mette sul piatto d’argento il gene mutato e a noi spetta solo dimostrare che è questo gene mutato a causare la malattia, ma in fondo non è poco. In altre parole prima la tecnologia ci dice quale è il gene mutato e poi si definisce la funzione della proteina che il gene codifica, all’interno di una particolare malattia. Prima dello sviluppo della metodologia NGS, al contrario, si arrivava al gene, partendo dalla conoscenza delle funzioni di una proteina sul sistema immune e quindi ipotizzando, in presenza di sintomi compatibili, un difetto del corrispondente gene. Processo ovviamente più lento e meno gratificante dal punto di vista dei risultati ma forse con un contributo individuale maggiore. Ogni epoca si adatta ai cambiamenti imposti dalla tecnologia. Il medico e non solo che è stato testimone delle tappe storiche sopradescritte, forse un po’ meno ed è possibile che provi una certa nostalgia per il periodo clinico nel quale poteva sentirsi di più al passo con i tempi e gli aspetti relazionali con il paziente e la famiglia erano (forse) più sentiti. Chissà se nel suo intimo, parafrasando la canzone di Roberto Vecchioni, luci a San Siro, non possa pensare anche solo per un momento “datemi indietro la mia seicento e quella ragazza che tu sai...”
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Editoriale Ciprandi G1 1Specialista in Allergologia ed immunologia Clinica, Genova
Il futuro dell’Allergologia Pediatrica L’Allergologia Pediatrica rappresenta sicuramente un’importante branca della Pediatria. Infatti, le malattie allergiche e la patologia infettiva rappresentano la stragrande maggioranza delle problematiche osservabili nella pratica clinica quotidiana. Inoltre, le allergie sono spesso associate alle infezioni.
Negli ultimi anni si è assistito ad un notevole progresso sia dal punto di vista della diagnosi sia della terapia delle malattie allergiche. A fronte di questi progressi però si continua ad assistere ad un progressivo e costante aumento della prevalenza delle allergopatie. Stime attendibili riportano una prevalenza molto vicina al 50% della popolazione pediatrica generale, cioè un bambino su due è allergico! Questa realtà impressionante richiede una struttura sanitaria efficiente ed in grado di soddisfare la richiesta continua di visite allergologiche.
Quindi il primo vero problema del futuro dell’allergologia pediatrica è di fatto organizzativo. In un periodo congiunturale non favorevole dal punto di vista finanziario, i tagli alla sanità pubblica, che purtroppo si sono susseguiti in questi ultimi anni, hanno contribuito a rendere sempre più profondo il gap tra la domanda di medicina specialistica e l’offerta assistenziale. Il numero dei centri di Allergologia Pediatrica e soprattutto il personale, medico ed infermieristico, si è sempre più assottigliato. Per rispondere a questa esigenza è quindi necessario cambiare i modelli organizzativi e soprattutto procedere ad un avanzamento professionale, sia culturale sia organizzativo. Il rapporto ospedale-territorio deve quindi diventare sempre più stretto, efficace ed efficiente. Per fare questo è necessario che vengano presi dei provvedimenti normativi, ma anche deve essere ben evidente il concetto che buona parte dell’attuale carico di lavoro che grava sulla realtà ospedaliera deve essere trasferito al territorio. Il pediatra di libera scelta, in altre parole, deve essere in grado di gestire buona parte delle problematiche allergologiche, ovviamente sempre in stretto contatto con i centri di riferimento di primo, secondo e terzo livello. Infatti solo una rete perfettamente connessa può consentire di rispondere in maniera adeguata alle sfide del futuro.
Il presente poi è veramente drammatico: la pandemia in corso ha purtroppo segnato in maniera difficilmente emendabile la storia di tutti noi. Una situazione impensabile, forse però prevedibile. Sicuramente la pandemia COVID-19 traccia lo spartiacque tra un prima ed un dopo. Come sempre però una difficoltà può e deve trasformarsi in un’opportunità. Infatti, questa drammatica situazione se da un lato ha scoperto ancora di più le carenze del nostro sistema, dall’altro ha accelerato lo sviluppo e la diffusione della medicina informatica. La possibilità di comunicare attraverso smartphone e computer sia tramite specifiche applicazioni sia con l’utilizzo di software innovativi ha consentito di far finalmente decollare la Telemedicina. A questo proposito una delle più importanti remore alla sua applicazione era la mancanza di norme relative alla sua contabilizzazione. Finalmente si è giunti alla sua ufficializzazione con dei provvedimenti normativi adeguati, per cui è definitivamente diventata uno strumento ufficialmente utilizzabile nella pratica clinica.
Un’altra buona notizia, che è stata offerta dalla pandemia COVID-19, è rappresentata dalla dimostrazione che i soggetti allergici sono in qualche modo “protetti” dall’infezione. Fa piacere sottolineare che questa osservazione è nata dall’intuizione di medici italiani. Infatti, nonostante inizialmente fosse stato previsto che i soggetti asmatici ed allergici potessero essere a rischio di sviluppare COVID-19 in maniera più frequente e più grave degli altri soggetti, si è osservato il contrario. La presunzione che i soggetti allergici fossero più a rischio per il COVID-19 in realtà ha una base solida e ben evidenziata. E’ ben noto che l’allergia rappresenta un importante fattore di rischio per un’aumentata suscettibilità alle infezioni. Il motivo è che il bambino allergico presenta un difetto della fisiologica risposta immune di tipo 1 a scapito della polarizzazione di tipo 2. Inoltre l’infiammazione allergica rappresenta un importante fattore favorente l’attecchimento e lo sviluppo dei germi a livello mucosale. Però la Natura a volte è molto previdente: la tipica risposta di tipo 2 si caratterizza per un aumento degli eosinofili sia a livello periferico sia tessutale: infatti, i soggetti allergici ed asmatici spesso presentano un’eosinofilia. Tra l’altro bisogna ancora ricordare che la moderna Medicina si basa su due cardini fondamentali: la Medicina di Precisione e la sua derivata Medicina Personalizzata. La traduzione pratica della Medicina di Precisione consiste appunto nel fenotipizzare (e a livello più avanzato endotipizzare) i bambini asmatici alla luce delle conoscenze immunopatologiche. Il bambino asmatico nella stragrande maggioranza dei casi presenta un fenotipo di tipo 2 “high”, caratterizzato da eosinofilia periferica e tessutale. Il fenotipo 2 può però riconoscere una base patogenetica allergica o non-allergica. Ma mentre nell’adulto questi 2 sotto-fenotipi si equivalgono numericamente. Nel bambino nella stragrande maggioranza dei casi il fenotipo di tipo 2 è allergico. Questo aspetto è molto importante, perché, proprio nel contesto della Medicina di Precisione, consente di definire il trattamento più appropriato, cioè seguire i dettami della Medicina Personalizzata. Per potere però identificare in maniera corretta il fenotipo (e l’endotipo) bisogna disporre di strumenti adeguati ed affidabili, che sono i biomarcatori. Purtroppo ad oggi sono pochi ed il futuro speriamo che ci riservi la possibilità di disporne in numero adeguato. Oggi di fatto sono disponibili sostanzialmente due biomarcatori: gli eosinofili periferici e le IgE specifiche. Ma la ricerca sta cercando di individuare dei marcatori più precisi nel definire il grado di infiammazione e nel predire la risposta alle terapie individualizzate. Queste terapie si basano sull’impiego di farmaci biologici, sostanzialmente costituiti da anticorpi monoclonali rivolti verso uno o più bersagli. Solitamente i bersagli dei farmaci biologici sono le citochine pro-infiammatorie o un fattore patogenetico basilare delle reazioni allergiche, cioè le IgE.
Visti i costi notevoli e la possibile mancata risposta a certi biologici, è fondamentale definire in maniera corretta e precisa l’assetto patogenetico di ogni singolo paziente.
Quindi il futuro dovrà riservarci farmaci biologici sempre più potenti e specifici e strumenti diagnostici precisi e facilmente accessibili.
Rimanendo nell’ambito dell’asma, un obbiettivo che dovrà essere raggiunto nel futuro è costituito dal conseguimento di una più ampia quantità di bambini asmatici con un adeguato controllo della malattia asmatica. Purtroppo ad oggi meno della metà dei bambini asmatici riesce a conseguire un buon controllo dell’asma. I motivi sono diversi, ma sicuramente bisognerà aumentare i nostri sforzi per garantire tutte quelle misure, educazionali, organizzative, culturali e professionali, che possano consentire di raggiungere più elevate percentuali di bambini controllati.
A questo proposito un punto chiave è rappresentato dalla necessità di stringere sempre di più le collaborazioni multi-disciplinari. Di fronte alle esigenze di una Medicina di Precisione e Personalizzata, è veramente impensabile che una gestione a 360 gradi della problematica allergologica e dell’asma sia gestita da un solo specialista. In questo contesto, un aspetto particolarmente rilevante è rappresentato dalla gestione della sfera emozionale del bambino, ma anche della sua famiglia. Si è notato che i bambini, ma soprattutto gli adolescenti, molto spesso presentano disturbi emotivi che influenzano negativamente l’andamento dell’asma. Ma si è anche dimostrato che l’ansia e la depressione nei genitori, soprattutto nelle madri, influenzano ancor più negativamente l’andamento dell’asma dei loro figli. Il futuro dovrà anche vedere un più diretto e collaborativo “passaggio di consegne” dal pediatra allergologo all’allergologo dell’adulto, in modo che non vadano perse importanti informazioni e soprattutto venga mantenuto un tranfer positivo tra adolescente/adulto e medico.
Un altro aspetto che andrà valorizzato sarà il sempre più stretto coinvolgimento del paziente (e della sua famiglia) nelle scelte decisionali. Infatti l’aderenza alle terapie è uno dei punti chiave nel raggiungimento di un successo terapeutico. Un alto grado di aderenza può però essere raggiunto solo informando adeguatamente e consigliando in maniera chiara e puntuale. Inoltre in un periodo di risparmi sanitari solo un corretto “engagement” potrà consentire un’appropriatezza prescrittiva e un successo terapeutico.
Il futuro riserverà anche importanti novità nel campo della diagnostica molecolare. Verranno individuate nuove molecole allergeniche ed approfondite le conoscenze di quelle attuali. Anche in questo contesto, la definizione di un profilo di rischio e la predizione di risposta all’immunoterapia specifica saranno obbiettivi importanti da raggiungere. Nel campo delle allergie alimentari poi lo sviluppo di consolidati protocolli di somministrazione e di gestione e dell’immunoterapia orale sarà un importante traguardo da conseguire. Ad oggi rimangono ancora molte perplessità sulla migliore strada da percorrere per conseguire una tolleranza immunologica e quindi clinica nei confronti degli allergeni causali.
Anche la gestione della dermatite atopica subirà dei profondi mutamenti alla luce dell’introduzione della terapia biologica anche per questa patologia. I primi passi sono stati compiuti, ma rimane ancora un lungo percorso per comprendere meglio le indicazioni e verificare la sicurezza e tollerabilità. Anche in questo caso l’individuazione di fenotipi peculiari consentirà di meglio inquadrare ogni singolo soggetto. Lo steso concetto di “marcia allergica” andrà rivisto proprio alla luce degli interventi preventivi che potremo attuare. Sicuramente la “vaccinazione di massa” utilizzando una miscela degli allergeni più comuni non può rappresentare una soluzione fruttifera. Invece lo studio del microbiota potrà riservare importanti scoperte. Già oggi è ben noto l’asse intestino-polmoni, ma anche intestino-cervello. Sempre più abbondanti evidenze si stanno accumulando e l’utilizzo di ceppi specifici di probiotici potrebbe riservare importanti sorprese sia dal punto di vista della prevenzione sia dal punto di vista terapeutico.
L’uso quindi di risorse “naturali” potrebbe rappresentare un’importante opzione terapeutica, anche alla luce del drammatico problema delle resistenze agli antibiotici. Modulare il microbiota anche ricorrendo alla batterioterapia potrebbe essere una strategia vincente anche alla luce del sempre minore interesse a sviluppare nuove molecole di antibiotici.
Sempre rimanendo nell’ambito dei rimedi naturali, c’è un notevole fermento nella ricerca e nello sviluppo di prodotti non-farmacologici che possano essere efficaci e sicuri. A questo proposito bisogna menzionare il fatto che alcuni rimedi naturali, tra cui il miele ed alcuni estratti vegetali, hanno ottenuto un livello di evidenza elevato per il trattamento della tosse post-infettiva. Da una medicina tradizionale ci si orienta sempre di più verso una medicina basata sull’evidenza. Quindi il futuro dovrà garantirci lo sviluppo di trial randomizzati e controllati che ci consentano di prescrivere terapie basate sull’evidenza ben documentata scientificamente e non su criteri empirici.
Sicuramente i settori che progrediranno nel prossimo futuro sono molteplici e in questa sede non è possibile affrontarli globalmente.
In conclusione, il futuro dell’Allergologia Pediatrica sarà favorevole per i nostri bambini allergici, ma dovrà vedere il concorso sinergico di più realtà che dovranno interagire sempre più strettamente tra loro: il bambino, la sua famiglia, il mondo delle associazioni, la classe medica, le società scientifiche, L’Università e le aziende farmaceutiche.
Come nei migliori gialli però la soluzione del problema arriva alla fine: i soggetti allergici sembrano essere protetti dal COVID-19 perché hanno tanti eosinofili. L’eosinofilo è infatti un importante antagonista dei virus, in quanto svolge un ruolo fondamentale della risposta anti-infettiva. A riprova della sua importanza è stato proprio osservato che i soggetti con COVID-19 presentano valori molto bassi se non nulli di eosinofili circolanti e l’eosinopenia all’esordio dell’infezione è un importante fattore prognostico negativo. Al contrario durante la guarigione gli eosinofili tornano a salire e normalizzarsi. L’allergico, avendo tanti eosinofili, presenta un sistema difensivo più efficace.
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Original Article Olivero F1, Licari A1, Marseglia G L1 1Clinica Pediatrica, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Università di Pavia
COVID-19, asma e allergia nel bambino L’infezione COVID-19 (Coronavirus disease 2019) è una malattia infettiva respiratoria causata dal virus SARS-CoV-2, manifestatasi per la prima volta a Wuhan, in Cina, alla fine del 2019. Al mondo sono state registrate più di 95 milioni di infezioni e 2 milioni di morti, in Italia più di 2 milioni di casi e più di 80.000 decessi (Castagnoli et al).
Da quanto è stato osservato nella pratica clinica e descritto in letteratura in questi mesi, in età pediatrica la patologia si presenta con sintomatologia lieve nella maggior parte dei casi, sebbene siano stati descritti anche casi gravi. Ciò sembra essere correlato ad una maggiore plasticità della risposta adattativa del sistema immunitario, al concetto di ‘trained immunity’ per cui il sistema immunitario dei bambini è spesso sottoposto a stimoli infettivi per infezioni frequenti e per l’esecuzione di vaccinazioni in età pediatrica, e dunque più ‘pronto’ a rispondere all’infezione; inoltre, i bambini sembrano avere una diminuita espressione del recettore per il virus SARS-CoV-2, l’ACE-2 (angiotensin-converting enzyme 2) (Maggi et al).
In Cina, la prevalenza di COVID-19 nella fascia d’età tra 0-19 anni è del 2.2%. Negli Stati Uniti l’1.8% della popolazione tra 0-4 anni e l’8.8% dei soggetti tra 5 e 17 anni ha sviluppato l’infezione. In Italia, secondo i dati riportati dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), i casi di COVID-19 in età pediatrica si attestano intorno all’1.8%, con un’età media di circa 11 anni e una minima prevalenza nel sesso maschile (51.4%).
In Italia, solo il 13.3% dei bambini tra 0 e 19 anni ha necessitato di ricovero ospedaliero e il 5.4% di questi pazienti presentava patologie croniche pregresse. Il tasso di letalità del COVID-19 in età pediatrica (0-15 anni) è decisamente inferiore rispetto a quello osservato nell’adulto (0,06% in età pediatrica vs 0,19% nel gruppo di età 40-49 anni, 2,97% nella fascia 50-59 anni, 10,23% nel gruppo di età 60-69 anni, 19,03% nella fascia di età 80-89 anni). Finora, i dati pubblicati dal bollettino dell’ISS riportano 4 decessi sotto i 9 anni e nessuno nella fascia d’età tra i 10 e i 19 anni.
SARS-CoV-2 colpisce principalmente l’apparato respiratorio ed i polmoni, pertanto è fondamentale comprendere quanto la presenza di patologie croniche polmonari, come l’asma, possa influire negativamente sulla prognosi della malattia COVID-19, determinando una forma grave di patologia. In età adulta sono considerati fattori di rischio di malattia grave l’età superiore ai 60 anni, il sesso maschile e la presenza di comorbidità quali l’ipertensione, il diabete, le malattie cardiovascolari, le malattie respiratorie croniche e le neoplasie.
I principali fattori di rischio per lo sviluppo di forme gravi di COVID-19 in età pediatrica sono rappresentati dalla presenza di comorbidità (quali malattie genetiche, metaboliche, neurologiche, oncologiche, cardiopatie, immunodeficienze congenite o acquisite, emoglobinopatie, obesità, diabete e patologie polmonari croniche) e dall’età inferiore ad un anno.
Il CDC (Center for Disease Control and Prevention, organismo di Sanità Pubblica negli Stati Uniti) annovera l’asma tra i fattori prognostici negativi per morbidità e mortalità. Tuttavia, più che su evidenze scientifiche, ciò sembra basarsi sul giudizio clinico a priori e una recente review sistematica non ha osservato dati per cui l’asma in età pediatrica possa essere considerata un fattore di rischio per COVID-19, né per la sua gravità (Abrams et al). In particolare, uno studio cinese ha mostrato una prevalenza di asma dello 0,9% in pazienti ricoverati per COVID-19, una percentuale di molto inferiore a quella dell’asma nella popolazione generale, circa il 6,4% (Licari et al). A supporto di questo riscontro, sono stati ipotizzati diversi meccanismi.
ACE-2 è il recettore per il SARS-CoV-2 presente sulle cellule dell’ospite. Una volta che il virus si lega a questo recettore, la TMPRSS2, una serin-proteasi, agisce sulla spike protein del virus e ne media l’entrata nelle cellule dell’ospite (Figura 1). L’espressione di ACE-2 nell’epitelio respiratorio aumenta con l’età e sembra essere modulata dal tipo di infiammazione bronchiale presente nei soggetti asmatici. In particolare, ACE-2 sembra essere meno espresso nei bambini con asma caratterizzato da infiammazione di tipo 2 (Skevaki et al). Va sottolineato che questa correlazione non è stata descritta in pazienti adulti con asma non-tipo 2, che anzi presentano un maggior rischio di progressione verso una malattia grave. Alcune evidenze, inoltre, suggeriscono che la terapia con corticosteroidi per via inalatoria (ICS) potrebbe avere un ruolo nel ridurre i livelli di ACE-2 e TMPRSS2 (Skevaki et al). Di recente, uno studio ha messo in evidenza gli effetti di mediatori dell’infiammazione sulla produzione di ACE-2 nelle cellule epiteliali respiratorie, ottenute mediante broncoscopia, in pazienti atopici affetti o non affetti da asma. Si è osservato che IL-13 determina una riduzione della produzione di ACE-2 sia nei pazienti atopici con asma di tipo 2 che in quelli senza asma. L’espressione di ACE-2 è risultata inoltre ridotta in bambini e adulti con asma di tipo 2 e rinite allergica. Dunque, ciò potrebbe spiegare la ridotta prevalenza e minore gravità di COVID-19 nei soggetti con asma ed allergia (Licari et al) 
Figura 1. Struttura di SARS-CoV-2
Uno studio recentissimo condotto su una popolazione di 107 pazienti pediatrici guariti dall’infezione da SARS-CoV-2, ha cercato di stabilire se le malattie allergiche siano un fattore di rischio per l’ospedalizzazione nella malattia COVID-19, sottoponendo i partecipanti al questionario ISAAC3 (International Study of Asthma and Allergies in Childhood) e ad una valutazione allergologica, con esecuzione di skin prick test (SPT), dosaggio di IgE specifiche e spirometria, analizzando la prevalenza delle patologie allergiche ed i fattori associati all’ospedalizzazione. Dai risultati di questo studio è emerso che l’asma e le patologie allergiche non sembrano essere fattori di rischio per l’ospedalizzazione in corso di COVID-19 (Beken B et al.).
L’eosinopenia (E < 0,02 x 109/L) è stata identificata come fattore prognostico precoce di COVID-19 grave, sia negli adulti che nei bambini. Gli eosinofili sono cellule caratteristiche dell’infiammazione bronchiale asmatica ed un loro aumento può essere frequentemente osservato in pazienti affetti da allergie ed asma, poiché essi fanno parte della risposta immunitaria Th2 mediata. Essi hanno anche una funzione protettiva contro i virus respiratori, rilasciando citochine, proteine citotossiche di tipo 1 (IL-12 e IFN gamma) e ossido nitrico (Licari et al). Sebbene la patogenesi precisa non sia ancora stata compresa, in due studi effettuati in età adulta l’eosinopenia era presente in più del 50% dei pazienti nei primi giorni di ospedalizzazione e la normalizzazione della conta di eosinofili corrispondeva alla risoluzione dei sintomi clinici. Il meccanismo sottostante non è ancora chiaro, tuttavia è importante sottolineare che gli eosinofili non sono stati descritti nell’infiltrato polmonare da reperti bioptici di pazienti COVID-19, in cui prevale la componente macrofagica e linfocitaria (Maggi et al).
A sostegno di questa tesi è stato pubblicato uno studio retrospettivo su pazienti adulti affetti da COVID-19. Tra questi pazienti sono stati identificati coloro affetti da asma, di cui più di due terzi (77,5%) sono stati valutati in Pronto Soccorso e, di questi, il 78,8% è stato successivamente ricoverato. I soggetti con una conta di eosinofili precedente > 150 cellule/𝜇L hanno necessitato meno di ospedalizzazione. Inoltre, tra i pazienti ospedalizzati, coloro con valori di eosinofili ≥ 150 cellule/𝜇L hanno riportato un minore tasso di mortalità. Pertanto, un fenotipo asmatico di tipo 2 sembrerebbe essere un fattore predittivo per ridotta morbidità e mortalità da COVID-19. (Ferastraoaru et al).
A fronte di quanto detto, non va tuttavia sottovalutato il rischio di esacerbazioni legato all’infezione da SARS-CoV-2 nei soggetti asmatici. E’ stato recentemente osservato che i bambini con asma allergico affetti da COVID-19 necessitano maggiormente di terapia di salvataggio con beta2-agonista e farmaci ‘controller’ rispetto a pazienti asmatici senza infezione. Tuttavia, al momento vi sono poche evidenze per considerare SARS-CoV-2 come trigger di esacerbazioni asmatiche, al contrario di altri coronavirus (Ruano et al).
Infine, è importante sottolineare che i pazienti con asma grave non trattato possono essere più a rischio per COVID-19 in forma grave o complicata, anche se sono necessarie ulteriori e consistenti evidenze per confermarlo.
La Società Italiana di Allergologia ed Immunologia Pediatrica (SIAIP) ha recentemente emanato le seguenti raccomandazioni per la gestione dei pazienti asmatici in corso di pandemia:
-I farmaci prescritti per il controllo dell’asma, come ICS, broncodilatatori a lunga durata d’azione, farmaci antileucotrienici e, se necessario, corticosteroidi per via orale, devono essere assunti in maniera regolare.
-Anche i farmaci biologici nei pazienti con asma grave possono continuare ad essere somministrati, se possibile anche a domicilio. Ciò non sussiste durante la fase acuta dell’infezione, durante la quale sarebbe consigliabile sospenderli.
-E’ necessario che tutti i pazienti asmatici abbiano un piano d’azione scritto per la terapia di mantenimento e per le riacutizzazioni, con indicazioni su come essa vada modulata in base alla ricomparsa dei sintomi.
-Evitare l’utilizzo di nebulizzatori aerosol, che aumentano il rischio di diffusione del virus, e preferire l’utilizzo di spray predosati con distanziatore.
-Differire le prove di funzionalità respiratoria a meno che strettamente necessarie; evitare di eseguirle comunque in pazienti con COVID-19 sospetta o accertata.
-Sottolineare ai genitori l’importanza di seguire le norme di igiene e prevenzione relative al COVID-19, lavarsi regolarmente le mani e pulire adeguatamente i dispositivi con cui si effettua la terapia (maschere, boccagli, distanziatore, etc.).
-Evitare di fumare poiché il fumo aumenta l’espressione di ACE-2 e necessita di portare le mani a contatto con la bocca, aumentando il rischio di contagio.
-È consigliabile proseguire l’immunoterapia in atto per i pazienti atopici sensibilizzati, con somministrazione al domicilio in sicurezza, secondo le ultime disposizioni ARIA-EAACI (ref Abrams).
Bibliografia
Abrams EM, Sinha I, Fernandes RM, Hawcutt DB. Pediatric asthma and COVID-19: The known, the unknown, and the controversial. Pediatr Pulmonol. 2020 Dec;55(12):3573-3578. doi: 10.1002/ppul.25117. Epub 2020 Oct 22. PMID: 33058493; PMCID: PMC7675412.
Beken B, Ozturk GK, Aygun FD, Aydogmus C, Akar HH. Asthma and allergic diseases are not risk factors for hospitalization in children with COVID-19. Ann Allergy Asthma Immunol. 2021 Jan 22:S1081-1206(21)00053-3. doi: 10.1016/j.anai.2021.01.018. Epub ahead of print. PMID: 33493639; PMCID: PMC7825986.
Castagnoli R, Votto M, Licari A, Brambilla I, Bruno R, Perlini S, Rovida F, Baldanti F, Marseglia GL. Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 (SARS-CoV-2) Infection in Children and Adolescents: A Systematic Review. JAMA Pediatr. 2020 Sep 1;174(9):882-889. doi: 10.1001/jamapediatrics.2020.1467. PMID: 32320004.
Ferastraoaru D, Hudes G, Jerschow E, Jariwala S, Karagic M, de Vos G, Rosenstreich D, Ramesh M. Eosinophilia in Asthma Patients Is Protective Against Severe COVID-19 Illness. J Allergy Clin Immunol Pract. 2021 Jan 22:S2213-2198(20)31409-4. doi: 10.1016/j.jaip.2020.12.045. Epub ahead of print. PMID: 33495097; PMCID: PMC7826039.
Licari A, Leone M, Di Cicco ME, Bozzetto S, De Vittori V, Scavone M, Amato D, Capristo C, di Mauro D, Tosca MA. COVID-19: asma e allergia proteggono dalle forme gravi? Raccomandazioni per la gestione dell’asma in tempo di COVID-19. Rivista di Immunoogia e Allergologia Pediatrica 2020;34(Suppl.1):17-19.
Maggi E, Canonica GW, Moretta L. COVID-19: Unanswered questions on immune response and pathogenesis. J Allergy Clin Immunol. 2020 Jul;146(1):18-22. doi: 10.1016/j.jaci.2020.05.001. Epub 2020 May 8. Erratum in: J Allergy Clin Immunol. 2020 Nov;146(5):1215. PMID: 32389590; PMCID: PMC7205667.
Ruano FJ, Somoza Álvarez ML, Haroun-Díaz E, Vázquez de la Torre M, López González P, Prieto-Moreno A, Torres Rojas I, Cervera García MD, Pérez Alzate D, Blanca-López N, Canto Díez G. Impact of the COVID-19 pandemic in children with allergic asthma. J Allergy Clin Immunol Pract. 2020 Oct;8(9):3172-3174.e1. doi: 10.1016/j.jaip.2020.07.019. Epub 2020 Jul 27. PMID: 32730834; PMCID: PMC7384405.
Skevaki C, Karsonova A, Karaulov A, Xie M, Renz H. Asthma-associated risk for COVID-19 development. J Allergy Clin Immunol. 2020 Dec;146(6):1295-1301. doi: 10.1016/j.jaci.2020.09.017. Epub 2020 Sep 28. PMID: 33002516.
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Loddo I1, Barbara F1, Gentile G2, Di Gesaro G3, Di Carlo D1 1Dipartimento dei Servizi Diagnostici e Terapeutici. Laboratorio di Patologia Clinica, microbiologia e Virologia. IRCCS Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) Palermo, Italy 2Dipartimento dei Servizi Diagnostici e Terapeutici. Unità di Radiologia. IRCCS Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) Palermo, Italy 3Dipartimento per la cura e lo studio delle patologie cardio-toraciche. Unità di Cardiologia IRCCS Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) Palermo, Italy
La Cardiomiopatia Ipertrofica ereditaria: descrizione di una famiglia
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Original Article Loddo I1, Barbara F1, Gentile G2, Di Gesaro G3, Di Carlo D1 1Dipartimento dei Servizi Diagnostici e Terapeutici. Laboratorio di Patologia Clinica, microbiologia e Virologia. IRCCS Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) Palermo, Italy 2Dipartimento dei Servizi Diagnostici e Terapeutici. Unità di Radiologia. IRCCS Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) Palermo, Italy 3Dipartimento per la cura e lo studio delle patologie cardio-toraciche. Unità di Cardiologia IRCCS Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) Palermo, Italy
La Cardiomiopatia Ipertrofica ereditaria: descrizione di una famiglia Introduzione
La Cardiomiopatia Ipertrofica (CMI) è una malattia del muscolo cardiaco (miocardio), caratterizzata da un aumento dello spessore delle pareti del ventricolo sinistro (≥15 mm negli adulti o un Z-score > 3 nei bambini), soprattutto a livello del setto interventricolare, in assenza di condizioni predisponenti. Se è nota una storia familiare di CMI, o se i test genetici confermano che è presente una variante patogenetica, la diagnosi è supportata da uno spessore della parete del ventricolo sinistro ≥13 mm.
La diagnosi di CMI è essenzialmente clinica e basata sulla presenza di precisi criteri diagnostici di imaging cardiaco, inclusa l'ecocardiografia e/o la Risonanza Magnetica cardiaca. Si basa principalmente sulla rilevazione di un aumento dello spessore della parete del ventricolo sinistro, ma il fenotipo della malattia può esprimersi anche con fibrosi miocardica, anomalie morfologiche dell'apparato della valvola mitrale, anomala funzione coronarica e alterazioni elettrocardiografiche.
La manifestazione più comune della patologia è l’ipertrofia settale asimmetrica, mentre il grado e la posizione dell'ipertrofia sono variabili. L’ipertrofia può essere concentrica o confinata ad altre pareti o all'apice del ventricolo sinistro.
Le manifestazioni cliniche della CMI sono molto variabili: si può manifestare con ipertrofia del ventricolo sinistro asintomatica, o con la presenza di aritmie, fino a un quadro di scompenso cardiaco refrattario. Inoltre, le manifestazioni possono variare anche all'interno della stessa famiglia. Una conseguenza grave ma relativamente rara della CMI è la morte cardiaca improvvisa, che può essere correlata a tachicardia ventricolare o fibrillazione ventricolare.(1)
La CMI ha una prevalenza stimata nella popolazione di 1:500 e nel 60-70% dei casi è possibile identificare una o più alterazioni genetiche che possono interessare diversi geni che codificano per le proteine che compongono il sarcomero (catena pesante della beta-miosina, catena leggera della miosina, troponine T e I, proteina C cardiaca, alfa-tropomiosina, actina cardiaca, titina).(2,3)
Si stima che varianti patogenetiche in uno dei geni che codificano per una componente strutturale del sarcomero sono rilevate in circa il 50-60% dei casi con una storia familiare di CMI e in circa il 20-30% dei casi senza una storia familiare.(4)
Nella maggior parte dei casi familiari, la patologia si trasmette con modalità autosomica dominante (vale a dire che è sufficiente una sola copia del gene alterato per il manifestarsi della patologia), con un rischio di ricorrenza per la prole di un soggetto affetto pari al 50%, indipendentemente dal sesso del nascituro. Tuttavia non è possibile prevedere l’entità delle manifestazioni cliniche.
Sono inoltre caratteristiche la penetranza età-dipendente (gli individui portatori della variante patogenetica hanno una probabilità di manifestare la patologia che incrementa con l’età) per lo più incompleta (alcuni soggetti portatori della variante non manifestano la malattia, anche in età avanzata) e l’espressività variabile (la stessa variante determina un quadro clinico diverso fra i soggetti affetti, anche all’interno della stessa famiglia), con una proporzione stimata del 30% di varianti insorte de novo (cioè il soggetto affetto non ha ereditato la variante da uno dei genitori).
La maggior parte delle varianti (circa 80%) identificate nei pazienti con CMI si verifica in uno dei due geni che codificano per la catena pesante della β-miosina 7 (MYH7) o per la proteina C legante la miosina cardiaca (MYBPC3).
Ulteriori geni implicati nella CMI codificano per proteine altre sarcomeriche, tra cui TNNT2 (cardiac troponin T2), TNNI3 (cardiac troponin I), TPM1 (α-tropomyosin), MYL2 (myosin regulatory light chain), MYL3 (myosin essential light chain), and ACTC1 (cardiac a-actin).
Inoltre, circa il 3-5% degli individui affetti ha più di una variante (varianti bialleliche in un unico gene o varianti in eterozigosi in più di un gene), sebbene meno dell'1% presenta più di una variante patogenetica o probabilmente patogenetica. Le doppie mutazioni (eterozigosi composte o doppie eterozigosi) solitamente determinano manifestazioni cliniche più gravi rispetto alle singole mutazioni.(4,6)
Negli ultimi anni, gli sviluppi globali nel campo della genetica hanno notevolmente migliorato la nostra conoscenza delle malattie ereditarie, comprese le patologie cardiache. Mentre in passato solo uno o più geni candidati potevano essere studiati per la ricerca delle mutazioni causative, le nuove piattaforme di Next Generation Sequencing (NGS) offrono la possibilità, mediante un unico test, di identificare il difetto genetico responsabile del quadro clinico della cardiomiopatia ipertrofica nei pazienti affetti.
Le linee guida raccomandano pertanto di effettuare il test genetico per confermare la diagnosi nei soggetti con manifestazioni cliniche suggestive di CMI e per consentire lo screening a cascata dei familiari a rischio.(7,8)
La caratterizzazione molecolare della cardiomiopatia ipertrofica assume quindi una duplice valenza: confermare una diagnosi clinica dubbia e consentire l’identificazione dei familiari a rischio di sviluppare la cardiomiopatia ipertrofica, per i quali può essere avviato un programma di follow-up clinico-strumentale al fine di prevenire le complicanze più temibili della malattia.
Il test genetico può evidenziare la presenza di: varianti con un ruolo patogenetico chiaro e già descritto in altri pazienti; varianti con caratteristiche biologiche (tipo di variante, gene implicato) ed epidemiologiche (assenza della medesima variante in individui sani) che ne fanno presupporre la patogenicità, la quale tuttavia non può essere confermata con certezza; varianti a significato clinico incerto in base alle conoscenze a disposizione al momento dell’analisi.(9)
Casi clinici
Descriviamo il caso di un ragazzo affetto da cardiomiopatia ipertrofica riscontrata occasionalmente in seguito a valutazione pre-operatoria all’età di 18 anni. Riferisce di aver praticato vari sport senza presentare sintomi cardiologici. Il quadro ecocardiografico mostrava un severo ispessimento del setto interventricolare (SIV basale 20 mm, SIV medio 21 mm) e lieve ostruzione del tratto di efflusso ventricolare sinistro. All’età di 21 anni ha eseguito risonanza magnetica cardiaca (Fig.1) che mostrava una severa ipertrofia asimmetrica del ventricolo sinistro con prevalente interessamento del setto interventricolare medio-basale e in presenza di segni di ostruzione del tratto di efflusso ventricolare sinistro, associati a rigurgito mitralico.
Fig.1 Cardio RM (probando): sequenza cine Steady State acquisita nelle proiezioni 4-camere (A), 2-camere asse corto (B) e 3-camere (C); le immagini cine mostrano una prevalente ipertrofia settale medio-basale associata a una accelerazione di flusso (asterisco) a livello del tratto di efflusso del ventricolo sinistro con origine sottovalvolare; è stato inoltre segnalato un movimento sistolico anteriore del lembo mitralico associato a moderata insufficienza mitralica.
All’età di 22 anni è stato impiantato il defibrillatore automatico in prevenzione primaria. All’età di 30 anni è giunto in consulenza genetica, durante la quale è emerso che entrambi i genitori sono affetti da cardiomiopatia ipertrofica. In considerazione del quadro clinico presentato e della familiarità, si è resa proponibile l’analisi molecolare per la ricerca di una causa genetica che avrebbe potuto spiegare le manifestazioni cliniche.
Il DNA genomico è stato estratto da sangue periferico e le regioni genomiche contenenti gli esoni e i siti di splicing di 174 geni associati a patologie cardiovascolari (TruSight Cardio, Illumina) sono state arricchite con ibridazione in soluzione e analizzate mediante sequenziamento massivo in parallelo su piattaforma MiSeq Illumina. Il coverage medio è risultato 389.8X (>50X nel 99.3% delle regioni target). L’analisi è stata focalizzata sui geni noti associati a cardiomiopatia ipertrofica e le varianti identificate sono state confermate mediante sequenziamento Sanger.
L’analisi molecolare effettuata ha identificato la variante p.Arg820Gln in eterozigosi nel gene MYBPC3 e la variante p.Phe110Leu in eterozigosi nel gene TNNT2.
La variante p.Arg820Gln è causata dalla sostituzione del nucleotide G con un nucleotide A in posizione Chr11(GRCh37):g.47359085 (NM_000256.3:c.2459G>A) del gene MYBPC3 (cardiac myosin-binding protein C, OMIM*600958), che determina la sostituzione dell’amminoacido arginina con un amminoacido glutammina in posizione 820 della proteina (p.R820Q).
La variante p.Phe110Leu è causata dalla sostituzione del nucleotide T con un nucleotide G in posizione Chr1(GRCh37):g.201334370 (NM_001276347.1: c.330T>G) del gene TNNT2 (troponin T2 cardiac type, OMIM*191045), che determina la sostituzione dell’amminoacido fenilalanina con un amminoacido leucina in posizione 110 della proteina (p.F110L).
Entrambe le varianti identificate sono state già descritte in letteratura scientifica pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica(10-13) e sono del tipo solitamente associato alla patologia. Sono entrambe cambiamenti di sequenza rari e gli strumenti di predizione bioinformatica indicano che sono potenzialmente deleterie per la funzione delle proteine. Secondo la classificazione indicata dalle linee guida correnti(9), entrambe le varianti sono classificabili come patogenetiche.
Dall’anamnesi familiare del probando è emerso che entrambi i genitori erano affetti da cardiomiopatia ipertrofica.
Nella madre la patologia è stata diagnosticata all’età di 22 anni in seguito ad accertamenti effettuati dopo la prima gravidanza esitata in aborto spontaneo. All’età di 49 anni ha eseguito risonanza magnetica cardiaca che ha confermato il quadro di cardiomiopatia ipertrofica caratterizzato da prevalente coinvolgimento del setto medio-basale e segni di lieve ostruzione ventricolare. In questo caso il meccanismo di ostruzione non era determinato dall’ipertrofia del setto anteriore basale, nè da un significativo movimento sistolico anteriore del lembo mitralico, ma il gradiente di velocità, seppur lieve, originava dal tratto medio-ventricolare, a dimostrazione del fatto che sono diversi i meccanismi che determinano l’ostruzione ventricolare nella cardiopatia ipertrofica e che non dipendono solo dallo spessore del setto, ma anche dalle caratteristiche dall’apparato valvolare mitralico e dei muscoli papillari.(14) (Fig.2)

Fig.2 Cardio RM (madre): sequenza cine Steady State acquisita nelle proiezioni 4-camere (A), 2-camere asse corto (B) e 3-camere (C); le immagini cine mostrano un fenotipo analogo a quello del figlio, caratterizzato da prevalente ipertrofia settale medio-basale e accelerazione di flusso a livello del tratto di efflusso ventricolare sinistro con origine dal tratto medio-ventricolare.
Nel corso degli anni veniva riferita una graduale riduzione della tolleranza allo sforzo e frequenti episodi di oppressione precordiale, dispnea dopo modesta attività fisica ed episodi lipotimici. All’ecocardiogramma di controllo effettuato all’età di 58 anni, si evidenziava “ventricolo sinistro di normali dimensioni con ipertrofia asimmetrica (SIV 21 mm). Normale cinesi segmentaria e normale funzione sistolica, non segni di ostruzione dinamica all’efflusso ventricolare; ectasia del bulbo aortico (39 mm) e dell’aorta ascendente prossimale (40 mm); insufficienza aortica lieve; atrio sinistro lievemente dilatato; minima insufficienza della valvola mitrale”.
Anche il padre del probando è risultato affetto da cardiomiopatia ipertrofica diagnosticata durante uno screening effettuato all’età di 50 anni in seguito alla diagnosi nel figlio. Riferiti vari episodi lipotimici in età giovanile ed un episodio pre-sincopale all’età di 59. L’ecocardiogramma di controllo eseguito all’età di 61 anni ha evidenziato la presenza di “ventricolo sinistro di normali dimensioni, spiccatamente ipertrofico a livello del setto (SIV 25 mm), normale cinesi ed elevate pressioni di riempimento del ventricolo sn e atrio sn ingrandito”. Non ha mai eseguito risonanza magnetica cardiaca per claustrofobia.
In considerazione della familiarità e del quadro clinico presentato dai genitori, si è condotta un’analisi di segregazione mediante sequenziamento Sanger per la ricerca delle due varianti identificate nel figlio.
I test genetici effettuati hanno confermato che la variante p.F110L in eterozigosi nel gene TNNT2 è di origine materna, mentre la variante p.R820Q in eterozigosi nel gene MYBPC3 è di origine paterna.
In conclusione, nel raro caso descritto, il probando ha ereditato entrambe le varianti patogenetiche, presenti in due geni diversi nei genitori, e in maniera indipendente l’una dall’altra.
Discussione
La cardiogenetica è una branca della genetica medica in cui la biologia molecolare viene applicata alla ricerca di alterazioni delle funzioni cellulari durante lo sviluppo e di geni coinvolti, e mutazioni all'interno di questi geni, che possano spiegare questa “disfunzione”. La medicina di precisione basata sui dati genomici, nell’ambito della cardiogenetica, richiede un utilizzo sempre più diffuso e una resa sempre più elevata dei test genetici, nonché una comprensione degli effetti funzionali delle varianti genetiche e del loro significato prognostico.(15) Sulla base dei risultati ottenuti dai test genetici, è importante quindi stabilire un confronto tra le caratteristiche fenotipiche e genotipiche del probando, e cercare di trovare una connessione tra loro (correlazione genotipo/fenotipo). Tuttavia, a causa della penetranza incompleta e dell'espressività variabile, tipiche delle patologie cardiovascolari ereditarie, il fenotipo clinico della cardiomiopatia ipertrofica può variare tra i membri della stessa famiglia che condividono la medesima variante patogenetica.
La complessità di queste informazioni da fornire al paziente implica la necessità di una consulenza genetica associata al test.
La consulenza genetica è un processo di comunicazione che si occupa del verificarsi di una determinata malattia genetica, o del rischio di insorgenza, e dovrebbe essere considerata come parte integrante del test genetico, anche nell’ambito della cardiogenetica, al fine di ottenere un’anamnesi familiare accurata per valutare la penetranza e l’espressività della patologia presente in famiglia, e informare il probando e i familiari delle potenzialità e dei limiti del test genetico proposto. La consulenza genetica post-test infine ha il compito di informarlo sul risultato dell’analisi genetica effettuata e sulle sue implicazioni. Tale risultato ha il potenziale di influenzare le decisioni cliniche ed eventualmente il follow-up dei familiari a rischio.(16)
L’analisi genetica per la diagnosi della cardiomiopatia ipertrofica deve essere quindi considerata una componente fondamentale della valutazione multidisciplinare in cui vengono tenute in considerazione la diagnosi clinica e la natura probabilistica dei test genetici stessi.
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Original Article Dipasquale V1, Romano C1 1UOSD Gastroenterologia Pediatrica e Fibrosi cistica, Dipartimento di Patologia Umana dell’Adulto e dell’Età Evolutiva “G. Barresi”, Università degli Studi di Messina
La gestione delle principali complicanze del bambino con disabilità neurologica Abstract
Children with neurological disability often have feeding and gastrointestinal disorders, with a high risk of malnutrition and growth failure. Assessment of nutritional status represents the first step in the clinical evaluation of children with neurological disability. In 2017 the European Society of Pediatric Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition (ESPGHAN) published its first consensus paper on gastrointestinal and nutritional issues in children with neurological disability, including assessment and monitoring of nutritional status, requirements, diagnosis and treatment of gastroesophageal reflux disease, and indications for and modalities of nutritional support. The appropriate application of the ESPGHAN guidelines is expected to lead to better management of this group of frail children.
Introduzione
I bambini con disabilità neurologica presentano spesso difficoltà ad alimentarsi e sintomi gastrointestinali, con conseguente scarsa crescita e/o malnutrizione cronica, e quindi ridotta qualità di vita. Negli ultimi vent'anni, la gestione di questo gruppo di bambini "fragili" è stata piuttosto carente, con importanti ritardi diagnostici ed ulteriore aumento del rischio di malnutrizione. Nel 2017 l’ESPGHAN (European Society of Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition) ha prodotto un documento sulla diagnosi e sulla gestione delle complicanze gastrointestinali e nutrizionali nei bambini con disabilità neurologica, basandosi su una revisione sistematica della letteratura e sull'opinione di esperti (1). Le linee guida ESPGHAN si rivolgono a pediatri, pediatri gastroenterologi, e tutte le figure professionali che prendono parte attiva alla gestione multidisciplinare di questo gruppo di pazienti, con lo scopo di fornire raccomandazioni uniformi ed univoche. Da un punto di vista pratico, tutti gli interventi terapeutici e nutrizionali devono aderire ai principi etici alla base di materia scientifica che coinvolga partecipanti umani.
Valutazione dello stato nutrizionale
Definire lo stato nutrizionale rappresenta il primo passo nella valutazione clinica dei bambini con disabilità neurologica. Per quanto riguarda il peso, quando possibile, la misura dovrebbe essere ottenuta attraverso l'utilizzo di una bilancia digitale o, se il bambino non è in grado di stare in piedi, di una bilancia per sedie a rotelle (2). Le lunghezze segmentali (tra cui l'altezza al ginocchio, tibiale ed ulnare) sono invece valide alternative alla lunghezza in clinostatismo in caso di deformità scheletriche (1). L'uso delle curve di crescita specifiche per paralisi cerebrale infantile, stratificate sulla base dell'abilità funzionale in accordo al GMFCS (Gross Motor Function Classification System) non è raccomandato, dal momento che esse sono soltanto descrittive (1). Secondo le linee guida ESPGHAN, la valutazione dello stato nutrizionale nei bambini con disabilità neurologica dovrebbe includere la valutazione della composizione corporea (1). Lo spessore delle pliche cutenee (plica tricipitale) e la bioimpedenziometria sono considerati i parametri più attendibili. La DXA (Dual-energy X-ray Absorptiometry) rappresenta il metodo di riferimento per valutare la composizione corporea, ma non è sempre facilmente eseguibile, è costosa e richiede un personale specializzato (1).
Stima del fabbisogno energetico
Prima di avviare qualunque tipo di intervento nutrizionale, bisogna stabilire il fabbisogno energetico del bambino. Secondo le linee guida ESPGHAN, il fabbisogno calorico dei bambini con disabilità neurologica può essere stimato usando i valori di riferimento per la spesa energetica basale giornaliera dei bambini normosviluppati (1, 3).

Tabella 1. Equazioni per stimare il fabbisogno energetico nei bambini con disabilità neurologica
Allo stesso modo, si raccomandano gli stessi consumi proteici giornalieri di riferimento, salvo condizioni cliniche specifiche (1). La stima del fabbisogno energetico fornisce soltanto un punto di partenza, ed è fondamentale poi il monitoraggio, che dovrebbe basarsi sull’incremento del peso corporeo, e non solo sulle assunzioni giornaliere riferite (1). Le misure antropometriche dovrebbero essere rilevate almeno ogni 6 mesi (1).
Stima del fabbisogno di micronutrienti
Il ferro, il selenio, lo zinco, gli acidi grassi essenziali, le vitamine C, D ed E sono riportati essere carenti nel 15-50% dei bambini con disabilità neurologica che hanno assunzioni giornaliere ridotte (1). In assenza di raccomandazioni specifiche, possono essere applicate le raccomandazioni standard per l'assunzione giornaliera di vitamine, minerali ed elementi in tracce dei bambini normosviluppati (1). Un supplemento giornaliero di vitamina D (circa 800-1000 IU) può essere necessario per il rischio di deficienza secondario all'uso di farmaci antiepilettici o per contrastare l'osteopenia secondaria all'immobilità (4). Si raccomanda il controllo dei livelli dei micronutrienti almeno una volta l'anno (1).
Malattia da reflusso gastroesofageo
La malattia da reflusso gastroesofageo (Gastro-Esophageal Reflux Disease, GERD) è uno dei disturbi gastrointestinali più frequentemente riportati in questa categoria di bambini (fino al 70-75% dei casi) (1,5). Questi pazienti ad alto rischio dovrebbero essere valutati per GERD precocemente, e trattati in maniera appropriata al fine di prevenire le complicanze a lungo termine (5). Le linee guida ESPGHAN raccomandano la diagnosi clinica di GERD e, quando possibile, con esofagogastroduodenoscopia con biopsie ed impedenza intraluminale multipla combinata con il monitoraggio del pH (1). Data l'alta prevalenza di GERD, e la difficoltà di eseguire indagini invasive, è accettabile anche un trial empirico con PPIs (Proton Pump Inhibitors) sotto stretto monitoraggio clinico (1,5). Il trattamento del GERD dovrebbe includere modifiche dello stile di vita, come l’eventuale modifica del volume, della consistenza e della frequenza dei pasti (5). La chirurgia antireflusso può essere considerata in caso di sintomi da GERD refrattario, infezioni respiratorie ricorrenti, e polmoniti da aspirazione (1).
Nutrizione enterale
Le linee guida ESPGHAN raccomandano di iniziare la nutrizione artificiale precocemente, prima dello sviluppo della malnutrizione (1). 
Tabella 2. Principali indicazioni all’avvio della nutrizione enterale
La nutrizione enterale dovrebbe inoltre essere considerata nel caso di severa disfunzione oro-faringea, o di fenomeni di aspirazione durante il pasto (1). La nutrizione per via gastrica rimane la modalità da preferire poiché l'inserzione della sonda è semplice e può essere avviata una nutrizione frazionata in boli. La PEG (Percutaneous Endoscopic Gastrostomy) è raccomandata in caso di nutrizione enterale a lungo termine (> 2 mesi). Essa favorisce l'incremento ponderale, e riduce i tempi del pasto (6). La scelta del regime alimentare deve essere individualizzata, in base al tipo di accesso enterale, livello di attività, fabbisogni calorici, e tolleranza ai pasti. Tra i vari regimi, la nutrizione frazionata mima le risposte endocrine fisiologiche ai pasti, consente programmi alimentari flessibili, ed aiuta a sviluppare la fame prima dei pasti per via orale (1). In caso di fabbisogni calorici elevati o scarsa tolleranza ai volumi è raccomandata la combinazione di una nutrizione enterale continua notturna, e frazionata in boli diurna, al fine di fornire un apporto calorico sufficiente (1). Per quanto riguarda la formula per nutrizione enterale, ne esistono diverse tipologie. Le linee guida ESPGHAN raccomandano l'offerta di latte materno, formula standard, o formula enterale per lattante ad alta densità calorica (laddove esista l'indicazione clinica) al di sotto dell'anno; formula standard (1.0 kcal/mL) polimerica appropriata all'età ricca di fibre è di prima scelta dopo l'anno (1). Formule ad alta densità calorica (1.5 kcal/mL) sono suggerite per bambini con fabbisogno calorico aumentato o scarsa tolleranza a grandi volumi (1).
Conclusioni
La presa in carico dal punto di vista nutrizionale è fondamentale in tutti i bambini con disabilità neurologica che presentino difficoltà ad alimentarsi. La collaborazione tra i pediatri di famiglia ed il team specialistico multidisciplinare è fondamentale al fine di definire la dieta e monitorare l’andamento clinico nel tempo con lo scopo di garantire una gestione complessiva e la migliore qualità di vita possibile in questa categoria di bambini.
Abbreviazioni:
BMI, Body Mass Index
DXA, Dual-energy X-ray Absorptiometry
ESPGHAN, European Society of Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition
GERD, Gastro-Esophageal Reflux Disease
GMFCS, Gross Motor Function Classification System
PEG, Percutaneous Endoscopic Gastrostomy
PPIs, Proton Pump Inhibitors
Bibliografia
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Fusco M1, Tropeano A1, Salamone A1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Dove è finita la moneta?
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Case Report Fusco M1, Tropeano A1, Salamone A1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Dove è finita la moneta? Caso clinico
Una bambina dell’età di 2 anni giunge al Pronto Soccorso per ingestione di moneta documentata radiologicamente, presso altro nosocomio, a livello della regione faringo esofagea.
L’ingestione, avvenuta circa 3 ore addietro, sarebbe stata seguita da abbondante scialorrea e un singolo episodio di vomito.
Alla visita clinica la piccola si presentava in condizioni generali buone, vigile e reattiva, con cute rosea normoidratata, obiettività toracica e addominale nella norma e parametri vitali stabili. Non presentava tosse né scialorrea.
La paziente veniva prontamente sottoposta ad esami ematochimici ed ECG risultati nella norma mentre la rivalutazione radiologica di collo, torace e addome confermava la presenza del corpo estraneo riferito in anamnesi (moneta del diametro massimo di 22 mm) a livello dell’esofago prossimale. 
Figura 1. RX torace in proiezione AP e LL con evidenza di moneta in esofago prossimale.
Alla luce di ciò, previo accertamento del digiuno da almeno 6 h, si procedeva alla urgente rimozione endoscopica della moneta. L’osservazione endoscopica della mucosa esofagea dopo la rimozione del corpo estraneo non ha mostrato lesioni mucose da decubito e/o conseguenti alla manovra estrattiva.
Dopo l’intervento la bambina ha ripreso gradualmente l’assunzione di soluzione reidratante orale con buona tolleranza e dopo due ore di osservazione è stata dimessa a domicilio.
Discussione
“Dottoressa, mio figlio ha ingerito una moneta!”
Cosa fare? Attendere sperando nel passaggio spontaneo o rimuovere la moneta?
L’ingestione di corpi estranei (CE) nei bambini è senza dubbio uno degli eventi clinici più frequenti ed impegnativi che il medico del Pronto Soccorso si trova a dover gestire. Quasi sempre l’ingestione è accidentale e si verifica tra i 6 mesi e i 6 anni (75% dei casi), con un picco intorno al 1°-2° anno di vita.
I corpi estranei più comunemente ingeriti in età pediatrica sono le monete (61,7%), seguite da giocattoli (10,3%), gioielli (7%),batterie (6,8%), oggetti appuntiti e cibo (restanti 7,1%). [1]
Le ultime linee guida sul management dell’ingestione di corpi estranei in età pediatrica forniscono aiuto al processo decisionale del medico di emergenza, mostrando quale sia il corretto timing per l’esecuzione dell’endoscopia, per rendere più efficace l’intervento e ridurre le complicanze.
Le linee guida definiscono i tempi endoscopici come: emergenza ( < 4h), urgenza ( < 24 h), elezione precoce ( < 48 h) ed elezione (> 48 h).
La decisione tra intervento o attesa del passaggio spontaneo dipende dall’età del bambino, dalle caratteristiche del CE (tipo e dimensione), dalla sede documentata radiologicamente (RX collo, torace e addome in proiezioni AP e LL) e dalla presenza o assenza di sintomi (disfagia, odinofagia, scialorrea, dolore retrosternale, rigurgiti, vomito, ematemesi, epigastralgia, tosse, stridore, difficoltà respiratoria).
Le monete di diametro inferiore a 2 cm ( 1, 5, 10 centesimi) vanno quasi sempre incontro ad espulsione spontanea in massimo 7 giorni.
Le monete di diametro superiore o uguale a 2 cm in bambini di età > 1 anno possono incontrare dei restringimenti fisiologici ed arrestarsi lungo il loro percorso. [2]
Se la moneta si arresta in esofago e il bambino è acutamente sintomatico, la rimozione endoscopica dovrebbe essere eseguita in emergenza. Se il bambino è asintomatico la rimozione deve avvenire entro massimo 24 h (urgenza) per ridurre il rischio di erosione della mucosa o di lesioni delle strutture circostanti.
Il passaggio della moneta nello stomaco o nel duodeno, se il bambino è asintomatico e non vi è rischio di una stenosi a valle ( es. stenosi post chirurgiche), indirizza quasi sempre ad una gestione di tipo conservativo in quanto il CE verrà in genere espulso spontaneamente. Il paziente viene dimesso con indicazione a seguire un’alimentazione regolare e un attento monitoraggio delle feci per verificare l’avvenuta espulsione. Se dopo 4 settimane, la moneta non fosse ancora stata eliminata si dovrà procedere, previo controllo radiologico, all’esecuzione dell’endoscopia in elezione.
La presenza di moneta nello stomaco richiederà endoscopia in urgenza se l’oggetto in questione ha diametro maggiore di 2,5 cm (molto improbabile che possa superare il piloro) o in emergenza se sintomatico. 
Figura 2. Algoritmo decisionale ingestione monete Infine , è importante ricordare che , in presenza di un riferito anamnestico dubbio è sempre fondamentale discriminare radiologicamente l’ingestione di una moneta rispetto all’ingestione di una batteria a bottone (segni “double ring” e “ step off”), che rappresenta un’assoluta emergenza clinica per il rischio di lesione caustica e perforazione della mucosa. [2]
Conclusioni In conclusione, l’ingestione di CE in età pediatrica costituisce un motivo di accesso relativamente frequente in un Pronto Soccorso e rappresenta un problema clinico rilevante per le possibili complicanze ad esso correlate. E’ fondamentale che il medico dell’emergenza-urgenza esegua un’accurata anamnesi, un preciso esame obiettivo e indirizzi il paziente all’esecuzione tempestiva di un esame radiologico al fine di identificare le caratteristiche, la localizzazione del CE ingerito e la sintomatologia. Solo con queste informazioni il medico potrà scegliere, servendosi dei più aggiornati approcci diagnostico-terapeutici, la strategia terapeutica più adeguata per il caso in questione. L’osservazione dei pazienti in OBI (osservazione breve intensiva) consente di valutare il paziente nella fase post trattamento d’urgenza e di riservare il ricovero solo per quei pazienti nei quali si svilupperanno complicanze.
Bibliografia
1.Orsagh-Yentis D, McAdams RJ, Roberts KJ, McKenzie LP, Foreign-Body Ingestions of Young Children Treated in US Emergency Departments: 1995–2015, Pediatrics 2019, 143;
2.Oliva S, Romano C, De Angelis P, et al. Foreign body and caustic ingestions in children: A clinical practice guideline, Dig Liv Dis 2020, 1266-1281.
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Case Report Tropeano A1, Fusco M1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Non sempre è colpa dell’appendice Caso clinico
Una ragazzina di 11 anni giungeva alla nostra osservazione per dolore addominale e stipsi. All’ingresso, si presentava in condizioni generali discrete, apiretica, pallida, l’addome risultava teso e diffusamente dolente già alla palpazione superficiale con Blumberg debolmente positivo, l’obiettività cardio-toracica era nella norma; prepubere. Da un’attenta revisione anamnestica emergeva una sintomatologia complessa, che si protraeva ormai da circa due settimane, caratterizzata da inappetenza, stranguria, pollachiuria, stipsi ed addominalgia a localizzazione prevalente al fianco destro. Nel sospetto di un’appendicopatia, su indicazione del Curante, aveva già praticato terapia antibiotica orale per una settimana (amoxicillina/clavulanato), con scarso beneficio. Al prelievo ematochimico si evidenziava anemia normocitica normocromica (Hb 9.8 gr/dl), incremento della PCR (nove volte la norma), LDH 1778 U/L, ipoalbuminemia ed ipoproteinemia, funzionalità d’organo e β-hCG nella norma.
L’ecografia addome metteva in evidenza una massa intraddominale, pertanto, si eseguiva TC addome con mdc (Figura 1) che documentava una voluminosa formazione espansiva di circa 14 x 12 x 19 cm, di pertinenza annessiale, a margini definiti, marcato enhancement dopo infusione di mdc con verosimili aree di necrosi colliquativa, che occupava ampiamente il mesogastrio, l’ipogastrio, lo scavo pelvico e comprimeva gli organi limitrofi. Era evidente altresì un “gettone solido di circa 16 mm in sede preepatica” in assenza di evidenti lesioni focali a carico di fegato, milza, pancreas e surreni. I biomarker tumorali risultavano patologici (Tabella 1) ed una successiva RMN addome (Figura 1) confermava i reperti suddetti, evidenziando, inoltre, “grossolane strutture vascolari che dal fianco sinistro si aprono a ventaglio sul versante anteriore della massa”.
Nel sospetto di una neoplasia ovarica maligna, la paziente veniva, quindi, sottoposta ad intervento chirurgico di “debulking” con annessiectomia monolaterale, omentectomia parziale, appendicectomia e dissezione dei linfonodi pelvici. L’esame istologico estemporaneo confermava la natura maligna della lesione, mentre a distanza di qualche giorno, veniva posta diagnosi conclusiva di tumore del sacco vitellino con metastasi omentale e periappendicolare (pT3 N0 Mx Stadio FIGO IIIc). La ragazzina veniva quindi affidata all’oncologo pediatra per eventuali ulteriori trattamenti.
Discussione
il tumore del sacco vitellino (TSV) è una neoplasia rara in età pediatrica, che ammonta a circa il 3.5% di tutte le neoplasie pediatriche sotto i 15 anni di età.1 Generalmente origina dalle gonadi, anche se in circa un terzo dei casi può avere sede primaria extra-gonadica (vagina, mediastino, ipofisi, cervice, endometrio, area sacrococcigeea, stomaco, occhio, orecchio, omento). 1 L’esatta patogenesi del TSV rimane poco chiara, è probabile che derivi dalla trasformazione maligna di cellule germinali dislocate lungo il percorso che, tra la 4° e 6° settimana di gestazione, porta le cellule germinali a migrare attraverso la linea mediana del mesentere dorsale verso la cresta gonadica in via di sviluppo; residui cellulari lungo questo percorso possono essere sito di trasformazione maligna futura.2 La presentazione clinica può essere molto subdola includendo dolori addominali ricorrenti, distensione addominale progressiva, febbre, anemia, e sintomi e/o segni associati all’effetto massa esercitato dal tumore nelle sedi extra-gonadiche.1
Come per qualsiasi tumore ovarico sospetto, l’iter diagnostico si avvale dell’ecografia addomino-pelvica, della RMN addomino-pelvica, della TC torace e del dosaggio dei marker tumorali (alfa-feto proteina, β-hCG, inibina-B, ormone anti-Mulleriano e LDH).3 L’alfa-feto proteina rappresenta il marker più sensibile, trovandosi alterato in oltre il 90% dei casi di TSV; inoltre, può essere usato come indicatore prognostico per valutare l’eventuale residuo di malattia dopo intervento chirurgico.1 Il trattamento generalmente consiste nell’intervento chirurgico di rimozione del tumore, che anche negli stadi più avanzati di malattia deve basarsi su un approccio “fertility sparing”, che preservi l’utero ed almeno parte di un annesso. Prima di manipolare il tumore, tuttavia, è necessaria uno “staging”, che includa l’esplorazione della superficie peritoneale con biopsia del peritoneo diaframmatico, pelvico e dei recessi paracolici; ispezione e palpazione dei linfonodi pelvici e paraortici; escissione dei linfonodi ingranditi; ispezione e biopsie allargate dell’omento; ispezione dell’ovaio controlaterale con biopsia delle aree sospette.3
I tumori di stadio Ia necessitano solo dell’intervento chirurgico e di un attento follow-up, nello stadio Ic è necessaria la chemioterapia neoadiuvante, nello stadio Ib la gestione andrebbe individualizzata caso per caso. Negli stadi più avanzati di malattia, la chirurgia citoriduttiva estesa andrebbe evitata durante l’iniziale management in considerazione all’elevata chemiosensibilità della neoplasia. Bleomicina, etoposide e cisplatino sono i farmaci più usati nei protocolli pediatrici.3 Dopo il trattamento è necessario uno stretto follow-up con ecografia addomino-pelvica, TC ed RX torace, RMN oppure TC addomino-pelvica e dosaggio dei marker tumorali. 3 Da un punto di vista prognostico, il TSV ha una probabilità cumulativa di sopravvivenza a 5 anni pari a 87%, tuttavia, negli stadi più avanzati di malattia (III e IV stadio) la sopravvivenza varia tra il 20 e il 73% nei vari report in letteratura.4
Conclusioni
Sebbene il TSV sia una neoplasia rara in età pediatrica, non può essere disconosciuta dal pediatra, in quanto la pronta diagnosi e l’avvio di un corretto iter terapeutico possono garantire buone chances di sopravvivenza al paziente. Il caso descritto, inoltre, sottolinea l’importanza di un’approfondita intervista anamnestica capace di evidenziare sintomi e/o segni di allarme che indirizzano il medico ad eseguire gli opportuni approfondimenti diagnostici. 
Figura 1. La TC addome (immagine a sinistra) e la RMN addome (immagine a destra) evidenziano una voluminosa massa espansiva che occupa lo scavo pelvico, l’ipogastrio ed il mesogastrio comprimendo gli organi limitrofi. 
Tabella 1. Marker tumorali dosati
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Case Report Gambadauro A1, Cutrupi M1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
La Sindrome di Potocki-Lupski: quando l’Array-CGH fornisce la soluzione IntroduzioneLa Sindrome di Potocki-Lupski (Potocki-Lupski Syndrome, PTLS – OMIM #610883), anche nota come sindrome da duplicazione 17p11.2, è stata per la prima volta descritta nel 1996 da Brown et al [1]. La prevalenza si attesta intorno a 1 su 25.000 [5]. La trasmissione è autosomica dominante, derivante nella maggior parte dei casi da una mutazione ex novo. Nei due terzi dei casi descritti in letteratura, si osserva una duplicazione della lunghezza di 3,7 Mb all’interno del cromosoma 17p11.2. La regione critica coinvolta in questi casi è della lunghezza di 1,3 Mb e include geni come RAI1 (Retinoic acid-induced protein 1) e FLCN (Folliculin). Nella restante parte dei casi, si riscontrano duplicazioni non- ricorrenti che comprendono in particolare il gene RAI1, con lunghezza variabile da 0,41 Mb a 19,7 Mb [2]. Praticò et al ha descritto nel 2018 una duplicazione ex novo 17p12-p11.2, sempre correlata a tale sindrome [6]. La variazione della dimensione della regione coinvolta spiega il vasto spettro fenotipico, più frequentemente caratterizzato da disabilità cognitiva, ipotonia, disfagia oro-faringea, scarsa crescita, difficoltà del linguaggio, disturbi comportamentali, problemi cardiovascolari [3]. La diagnosi è confermata dal riscontro di una duplicazione in eterozigosi del cromosoma 17p11.2 ed il miglior metodo diagnostico è l’esecuzione dell’Array- CGH [2].
Case Report
La nostra paziente è una bambina di 9 anni della provincia di Messina. Secondogenita, nata da genitori non consanguinei, entrambi in buono stato di salute. All’anamnesi familiare, cugino di I grado della linea materna con ritardo dello sviluppo psicomotorio. La bambina è nata a termine (38 settimana gestazionale), da gravidanza normodecorsa ed esitata in parto spontaneo, con peso alla nascita pari a 2,500 Kg. Segnalati suzione ipovalida nei primi giorni di vita e necessità di fototerapia per ittero. Allattamento esclusivo materno, con divezzamento ai 6 mesi di vita.
La bambina si è presentata alla nostra attenzione con disabilità intellettiva di grado lieve, disturbo specifico del linguaggio, alterazioni della coordinazione motoria, ipotonia diffusa, turbe dell’equilibrio. Effettuata diagnosi presso altro Centro di malformazione di Arnold- Chiari di tipo 1. Dai 3 anni di vita ha praticato logopedia. La valutazione oculistica ha dimostrato un astigmatismo miopico semplice mentre il controllo uditivo è risultato nella norma. Elettroencefalogramma in sonno- veglia ed elettrocardiogramma hanno dato esito normale.
Dato il quadro clinico suggestivo di verosimile disturbo genetico, è stato eseguito l’Array- CGH che ha documentato la presenza di una delezione di circa 362 Kb nella regione cromosomica 9p21.1 (28,320,731-28,683,316) e una duplicazione di circa 3,2 Mb nella regione cromosomica 17p12-p11.2. (15,648,509-18,921,097). La delezione nella regione cromosomica 9p21.2 è risultata di significato incerto, non correlata in letteratura a condizioni note. La duplicazione cromosomica 17p12-p11.2 ha permesso, invece, la diagnosi di sindrome di Potocki- Lupski.
Discussione
L’utilizzo dell’Array- CGH in una paziente con anomalie dello sviluppo psicomotorio ha permesso di identificare la duplicazione in eterozigosi nella regione cromosomica 17p12-p11.2 e di effettuare una diagnosi di sindrome di Potocki- Lupski. Alcuni casi descritti in letteratura sono stati confermati tramite metodica FISH con identificazione della mutazione del gene RAI1 [3]. Il counseling genetico può richiedere l’esecuzione di un prelievo ad entrambi i genitori per l’Array- CGH: nel caso la duplicazione riscontrata nella probanda non fosse identificata nei genitori, il rischio di ricorrenza empirico per le nuove gravidanze sarebbe dell’1% (per il rischio ipotetico di forme di mosaicismo nei genitori [4]); qualora la duplicazione fosse riscontrata in uno dei due genitori, allora il rischio di ricorrenza per ogni futura gravidanza si attesterebbe al 50%.
La sindrome di Potocki- Lupski si caratterizza per segni dismorfici facciali lievi e non caratteristici (quali la micrognazia e orientamento antimongoloide della piega palpebrale) [2; immagine 1]. Le alterazioni del neurosviluppo comprendono: ipotonia lieve- moderata con disfagia oro- faringea, che si associa a riduzione delle assunzioni caloriche spontanee e a scarsa crescita; disabilità cognitiva, più spesso di grado moderato, con associato ritardo del linguaggio; apnee notturne; difficoltà comportamentali, come problemi di attenzione, iperattività e ansietà; disturbi dello spettro autistico [7]. Anomalie cardiovascolari sono riportate nel 40% dei casi e includono difetti del setto atriale e/o ventricolare, valvola aortica bicuspide, cuore sinistro ipoplasico [7,8]. Dal punto di vista endocrinologico, si può associare deficit di ormone della crescita, correlato a ipoglicemia e bassa statura [7]. Altre anomalie minori includono alterazioni muscoloscheletriche (iperlassità articolare, scoliosi), anomalie renali (ipoplasia, rene displastico multicistico, idronefrosi), iperopia, sordità neurosensoriale alle alte frequenze [7,9]. Nelle forme più lievi, si possono presentare esclusivamente anomalie comportamentali e cognitive [7]. La sindrome di Potocki- Lupski condivide alcune caratteristiche con la sindrome di Smith- Magenis, caratterizzata da delezione 17p11.2 [2; tabella 1]. Si tratta, dunque, di una sindrome subdola e la diagnosi viene raggiunta spesso nella tarda infanzia. L’Array- CGH aiuta ad identificare i pazienti affetti e ad inserirli in un programma di follow-up [tabella 2], utile per monitorare le alterazioni neuro- cognitive e mediche connesse alla patologia di base. I test genetici pre- natali e pre- impianto sono consigliati ai genitori con nota duplicazione 17p11.2 o in caso di figlio con tale mutazione (e genitori esenti dalla mutazione). 
Figura1. Paziente con Sindrome di Potocki-Lupski [2]. 
Tabella1. Caratteristichr distintive di sindrome di Potocki-Lupski e Sindrome di Smith-Magenis. 
Tabella2. Follow-up in paziente con Sindrome di Potocki-Lupski.
Bibliografia
1.Brown A, Phelan MC, Patil S, Crawford E, Rogers RC, Schwartz C. Two patients with duplication of 17p11.2: the reciprocal of the Smith-Magenis syndrome deletion? Am J Med Genet. 1996; 63: 373-7
2.Potocki L, Neira-Fresneda J, Yuan B. Potocki-Lupski Syndrome. GeneReviews [Internet]. Seattle (WA): University of Washington, Seattle; 1993–2020. PMID: 28837307
3.Shuib S, Saaid NN, Zakaria Z, Ismail J, Abdul Latiff Z. Duplication 17p11.2 (Potocki-Lupski Syndrome) in a child with developmental delay. Malaysian J Pathol 2017; 39(1): 77 – 81
4.Campbell IM, Shaw CA, Stankiewicz P, Lupski JR. Somatic mosaicism: implications for disease and transmission genetics. Trends Genet. 2015;31:382–92
5.Liu P, Lacaria M, Zhang F, Withers M, Hastings PJ, Lupski JR. Frequency of nonallelic homologous recombination is correlated with length of homology: evidence that ectopic synapsis precedes ectopic crossing-over. Am J Hum Genet. 2011;89:580–8
6.Praticò AD, Falsaperla R, Rizzo R, Ruggieri M, Verrotti A, Pavone P. A New Patient with Potocki–Lupski Syndrome: A Literature Review. J Pediatr Genet 2018;7: 29–34
7.Potocki L, Bi W, Treadwell-Deering D, Carvalho CMB, Eifert A, Friedman EM, Glaze D, Krull K, Lee JA, Lewis RA, Mendoza-Londono R, Robbins-Furman P, Shaw C, Shi X, Weissenberger G, Withers M, Yatsenko SA, Zackai EH, Stankiewicz P, Lupski JR. Characterization of Potocki-Lupski syndrome (dup(17)(p11.2p11.2)) and delineation of a dosage-sensitive critical interval that can convey an autism Phenotype. Am J Hum Genet. 2007;80:633–49
8.Sanchez-Valle A, Pierpont ME, Potocki L. The severe end of the spectrum. Hypoplastic left heart in Potocki-Lupski syndrome. Am J Med Genet A. 2011;155A:363–6
9.Goh ES-Y, Perez IC, Canales CP, Ruiz P, Agatep R, Yoon G, Chitayat D, Dror Y, Shago M, Goobie S, Sgro M, Walz K, Mendoza-Londono R. Definition of a critical genetic interval related to kidney abnormalities in the Potocki-Lupski syndrome. Am J Med Genet A. 2012;158A:1579–88
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Case Report Pagano G1, Cavò G1, Di Venti G1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Un caso di invaginazione intestinale: triage al PSP Caso clinico
Nel mese di Ottobre 2019 viene triagiato al PSP Mario, 14 mesi. I genitori riferiscono che bambino da circa due ore si è svegliato particolarmente irritabile con crisi di pianto incosolabile; inoltre riferiscono che il piccolo ha presentato un episodio di vomito prima dell’arrivo in PSP; ultima evacuazione di feci nel pomeriggio precedente. Al triage il bambino si presentava irritabile e sofferente, la cute era pallida, lievemente disidratata; i parametri vitali registrati documentavano: TC 36,3°C, FC 110, FR 30, SaO2 98%, PA 100/57mmHg, glicemia al reflettometro 125. Veniva triagiato con codice verde e condotto in sala visita.
All’esame obiettivo presentava: condizioni generali discrete; assenza di segni meningei; cute pallida, calda, lievemente sollevabile in pliche all’addome. Faringe iperemico ma deterso. Obiettività toracica negativa. Addome pianeggiante, difficilmente valutabile per la facile irritabilità del piccolo paziente. All’esplorazione rettale ampolla vuota.
Veniva eseguito prelievo ematochimico, reperito accesso venoso periferico ed avviata infusione e.v. con soluzione fisiologica.
Gli esami ematochimici eseguiti al P.S.P mostravano leucocitosi (GB 14460/µL) con formula regolare (N 52,9%L 27,1%) e modico aumento della PCR (3,33 mg/dL).
Durante l’osservazione il bambino alternava momenti e di tranquillità ad altri di irrequietezza presentando un ulteriore episodio di vomito circa un’ora dopo l’accesso; veniva quindi richiesta ecografia addomino-pelvica che documentava un’immagine rotondeggiante “a bersaglio” a carico del quadrante medio-supero-esterno di destra da riferire ad invaginazione dell’ultima ansa intestinale nel cieco. All’ecocolordoppler si apprezzava una buona vascolarizzazione delle anse intestinali coinvolte.
Invaginazione intestinale
L'invaginazione rappresenta una delle emergenze chirurgiche più comuni nei primi 2 anni di vita, con un picco nei primi 4-7 mesi (67% dei casi), con maggior frequenza del sesso maschile (rapporto maschi/femmine 2:1). Per invaginazione s'intende il piegamento all'interno di una o più parti dell'intestino, l'uno dentro l'altro, con conseguente difficoltà del passaggio delle feci fino alla occlusione intestinale, vale a dire ad un vero e proprio blocco dello scorrimento delle feci nell'intestino. 
Figura 1. Tratto di intestino invaginato.
L’ invaginazione può essere unica quando coinvolge un solo segmento dell’intestino o multipla quando coinvolge più segmenti. La sede di invaginazione più frequente è quella ileo-cecale (60-80%). Più rara quella di tipo ileo-ileale e colo-colica. Dal punto di vista della causa che la scatena, l'invaginazione può essere primitiva o secondaria. Quella primitiva, frequente nell'infanzia, di solito è dovuta ad un aumento dell'attività peristaltica intestinale. Questo aumento è spesso provocato da infezioni dell'apparato gastrointestinale o respiratorio che possono determinare uni iperplasia dell'apparato linfatico in associazione a turbe motorie della stessa parete intestinale. Quella secondaria, invece, meno frequente nel paziente pediatrico (2% dei casi), è correlata a condizioni anatomiche (diverticolo di Meckel, appendice cecale, polipo, parassiti intestinali, duplicazione intestinale) e/o alterazioni della parete intestinale con interruzione della peristalsi (ematoma parietale, porpora di Schoenlein-Henoch) che favoriscono il meccanismo di invaginazione provocando un movimento intestinale anomalo.
Il quadro clinico della patologia è caratterizzato da:
-Dolore parossistico a crisi in un bambino prima sano. Tra le crisi il bimbo sta bene. Col passare del tempo il piccolo diviene stanco e letargico
-Vomito prima alimentare poi biliare;
-Feci a gelatina di ribes patognomoniche ma solitamente tardive;
-Massa addominale palpabile nel quadrante addominale superiore destro
-La classica triade sintomatologica costituita da: dolore addominale di tipo colico, vomito e feci a gelatina di ribes è presente solo nel 21% dei casi.
Per la diagnosi, oltre che clinica, è fondamentale la diagnosi strumentale che si basa su:
- Esame radiografico diretto dell'addome, che documenta l'alterazione della normale distribuzione del gas intestinale;
- Ecografia, oggi eseguita preferenzialmente rispetto all'esame radiologico;
- Clisma opaco con contrasto con finalità, oltre che diagnostiche, anche curative data la possibile risoluzione dell'invaginazione nel 40-60% dei casi.
All’esame ecografico nella scansione trasversale possiamo riscontrare un’immagine a coccarda. 
Figura 2. invaginazione intestinale: immagine a coccarda
Mentre nella scansione longitudinale riscontriamo un’immagine a sandwich 
Figura 3. Invaginazione intestinale: immagine a sandwich.
Il Clisma Opaco con contrasto con finalità, oltre che diagnostiche, anche curative data la possibile risoluzione dell'invaginazione nel 40-60% dei casi.
La riduzione (risoluzione) dell'invaginazione si considera completa se si evidenzia il passaggio di bario o aria a livello del piccolo intestino per almeno 5-10 cm. Se la riduzione ha avuto successo il bambino viene mantenuto in osservazione per uno o due giorni e, nel caso in cui non si siano presentate complicazioni, una volta sospesa la profilassi antibiotica e ripresa la alimentazione, può essere dimesso.
Nel caso in cui il tentativo di riduzione con il clisma opaco fallisca, l'unico trattamento è quello chirurgico, se possibile preceduto da un ulteriore controllo ecografico sotto anestesia. 
Possono esserci complicanze? Sono più che altro quelle di qualsiasi chirurgia addominale e cioè le possibili occlusioni intestinali post-operatorie.
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