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Editoriale La redazione
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Carmelo Salpietro, Professore Ordinario di Pediatria f. r. Università di Messina
Caterina Cuppari, vicario UOC Pronto Soccorso Pediatrico Azienda Policlinico Messina
Annamaria Salpietro Ospedale Civili di Brescia
Dieta, Genetica e Immunità
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Review Carmelo Salpietro, Professore Ordinario di Pediatria f. r. Università di Messina
Caterina Cuppari, vicario UOC Pronto Soccorso Pediatrico Azienda Policlinico Messina
Annamaria Salpietro Ospedale Civili di Brescia
Dieta, Genetica e Immunità Al pari dei germi i componenti della nostra alimentazione impattano continuativamente con il nostro identikit genetico-immunologico.
Le prime sentinelle che, come il codice a barre del supermercato, sono in grado di riconoscere i vari componenti della nostra dieta sono i toll-like receptor, dei recettori intracellulari controllati da geni che mappano in cromosomi diversi (Fig. 1). 
Dopo il riconoscimento, l’informazione, attraverso una miriade di trasduttori di segnali, arriva al nucleo delle cellule dove, in risposta al tipo di germe o di alimento “magicamente” alcuni geni vengono silenziati ed altri attivati. Il risultato di questo complesso e meraviglioso processo comporta il trasferimento del segnale ad una cellula che possiamo definire la regista del sistema immune: la cellula dendritica.
La cellula dendritica così “selettivamente attivata”, attraverso un complesso network (Fig.2), interagisce con i T linfociti nive condizionando il profilo e l’intensità di attivazione delle varie sottopopolazioni linfocitarie (Fig. 3). 

Il condizionamento dipende dai componenti della dieta e dalle peculiarità genetiche ereditate dal soggetto.
Il risultato può determinare la “omeostasi immunocitochinica” e quindi la normalità o una “disregolazione immunocitochinica” e quindi la malattia.
Per traslare subito le suddette nozioni alla pratica clinica vediamo un adolescente con una sindrome allergica orale subito dopo il contatto labiale con una fragola (fig. 4). 
Il processo di interazione tra alimenti e sistema immune avviene prevalentemente a livello intestinale.
L’intestino è il più esteso organo immunitario, circa 300 metri quadri, ed ha l’arduo compito, nell’arco di una vita, di screenare ed avviare i processi di riconoscimento e tolleranza per circa 60 tonnellate di cibo, 50 mila litri di liquido, 3 tonnellate di additivi e almeno 500 specie differenti di batteri.
La dieta può comportare problemi in soggetti con specifiche malattie genetiche come la fenilchetonuria, la sindrome fetoalcolica, la celiachia, il favismo.
Ma anche nei soggetti che non hanno tare genetiche specifiche la dieta può determinare problematiche specifiche per:
1) Carenze nutrizionali globali. Il prototipo è, nei paesi in via di sviluppo, il kwashiorkor, dove le carenze nutrizionali globali comportano una drastica compromissione di tutte le componenti del sistema immune per cui l’impatto con un banale germe può comportare l’exitus:
2) Un eccesso di nutrizione, problematica amplificata dal Covid, che porta all’obesità e, nel tempo, a numerose patologie metaboliche e infiammatorie.
Di particolare interesse sono le evidenze che correlano il BMI con il grado di incremento di citochine proinfiammatorie e la riduzione di quelle omeostatiche come la IL 10.
3) Le carenze nutrizionali selettive di vitamine e di altri componenti (Fig. 5) 
Nella Fig. 6 vediamo un lattante con acrodermatite enteropatica da deficit di zinco. 
Un’altra rilevante problematica è emersa per l’utilizzo nella dieta di insetti, codificata da recenti norme europee e già utilizzati in molti paesi (Fig. 7). 
L’utilizzo nella dieta di insetti, oltre alla ripugnanza in base alle nostre radicate tradizioni alimentari può, verosimilmente, favorire nuove allergopatie e nuove spinte alla disregolazione immunocitochinica.
In conclusione possiamo concludere che l’utilizzo continuativo nella dieta di alcune sostanze antiossidanti può favorire la tolleranza immunitaria e l’omeostasi e che la dieta mediterranea resta il riferimento ottimale per i soggetti in età evolutiva e i loro genitori (Fig. 8) 
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Laura Grilli, Roberta Romano, Francesca Cillo, Laura Pignata, Elisabetta Toriello, Antonio De Rosa, Loredana Palamaro, Nicola Brunetti-Pierri, Emilia Cirillo, Emma Coppola, Andrea Riccio, Giuliana Giardino, Claudio Pignata, Clinica Pediatrica, Università Federico II Napoli
Ruolo dell’epigenetica nei disordini congeniti dell’immunità
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Review Laura Grilli, Roberta Romano, Francesca Cillo, Laura Pignata, Elisabetta Toriello, Antonio De Rosa, Loredana Palamaro, Nicola Brunetti-Pierri, Emilia Cirillo, Emma Coppola, Andrea Riccio, Giuliana Giardino, Claudio Pignata, Clinica Pediatrica, Università Federico II Napoli
Ruolo dell’epigenetica nei disordini congeniti dell’immunità Introduzione
Negli ultimi anni l’epigenetica sta emergendo come un importante strumento di modulazione della trascrizione genica e conseguentemente il suo ruolo nella maturazione e funzionalità cellulare. I dati genome-wide della metilazione del DNA hanno evidenziato un potenziale ruolo patogenetico dell’epigenetica nel campo della risposta immunitaria. Per tali ragioni l’obiettivo di questa review è riassumere le evidenze della letteratura che suggeriscono un’associazione tra patogenesi degli errori congeniti dell’immunità ed alterazioni delle modificazioni epigenetiche. In particolare, ci concentreremo su malattie ben conosciute e nuove sindromi la cui patogenesi può essere spiegata dai disordini dei meccanismi epigenetici. Lo studio di tali sindromi può aiutare a chiarire il contributo dell’epigenetica nello sviluppo del sistema immunitario.
Fisiologia dell’epigenetica
Per epigenetica si intendono i processi di regolazione funzionale dell’espressione genica che si verificano senza un’alterazione diretta sulla sequenza del DNA. Questi meccanismi includono la regolazione delle funzioni e dello stato di attivazione della cromatina, strettamente connesse all’accessibilità e al controllo della trascrizione e dell’accessibilità del genoma [1,2]. In particolare, la replicazione del DNA è un fenomeno complesso e dinamico basato sull’interazione reciproca tra epigenetica, attività trascrizionale e la struttura di cromatina attorno alla quale il DNA è ripiegato e condensato nel nucleo [3]. La doppia elica di DNA è avvolta attorno un core di 8 proteine istoniche, che comprendono due copie di ogni istone, H2A, H2B, H3, and H4, formando strutture biomolecolari superordinate, che prendono il nome di nucleosomi, che costituiscono le fibre cromatiniche [4] A causa della flessibilità delle fibre cromatiniche, sequenze target possono venire a contatto con i propri elementi regolatori, anche quando sono collocate distanti. I cromosomi si possono segregare in due tipi di cromatina mutualmente esclusivi, A e B, includendo rispettivamente geni ricchi di cromatina attivata o repressa [5,6]. Oltre al rimodellamento della struttura cromatinica, la metilazione del DNA, le modificazioni degli istoni e gli RNA non codificanti sono fattori epigenetici chiave coinvolti nelle dinamiche del controllo trascrizionale. Per la metilazione del DNA, un gruppo metilico è aggiunto al carbonio C di una citosina seguita da una guanina dinucleotide (siti CG o CpG) da delle DNA metiltransferasi (DNMTs). Una volta stabilita sulle regioni regolatrici, la metilazione può essere repressiva per la trascrizione perché inibisce direttamente il legame dei fattori di trascrizione o inibisce indirettamente l'attività delle proteine leganti il metile e dei modificatori della cromatina. I segnali istonici, come le modificazioni dell’istone H3, inclusi la trimetilazione dell'istone 3 lisina 4 (H3K4me3) e/o l'acetilazione dell'istone 3 lisina 27 (H3K27ac), correlano con l’espressione dei geni. Tali segnali correlano negativamente con la metilazione del DNA e positivamente con l'espressione genica [7]. Per il normale sviluppo umano è necessaria una corretta metilazione del DNA [8]. Recentemente, attraverso l'uso di piattaforme di screening ad alto rendimento, un numero crescente di disturbi è stato associato a specifiche "episignature", indicando che l'analisi della metilazione del DNA può rappresentare un potente strumento per la classificazione più accurata delle malattie con segni clinici sovrapposti e per la categorizzazione di casi con varianti genetiche poco chiare [9]. I cosiddetti RNA non codificanti includono microRNA (mRNA) e RNA lunghi non codificanti (lncRNA), entrambi coinvolti nella regolazione dell'espressione genica. Le prime sono molecole corte che si legano a sequenze complementari nella regione 30 UTR dell'mRNA, inibendone direttamente la traduzione o inducendone la degradazione. Questi ultimi sono più lunghi di 200 nucleotidi e agiscono legandosi ai modificatori istonici o alle proteine di regolazione della trascrizione [10]. Poiché svolgono un ruolo cruciale nella regolazione di processi quali proliferazione, differenziamento, sviluppo e apoptosi, non sorprende come la perdita della loro funzione sia rilevante anche per le malattie umane, come scoperto dalle prove ottenute nel campo della tumorigenesi [11].
Epigenetica nel Sistema immunitario
Un numero crescente di evidenze suggerisce che i meccanismi epigenetici, inclusa la metilazione del DNA, svolgono un ruolo chiave nei processi di emopoiesi, contribuendo alla differenziazione delle cellule staminali ematopoietiche (HSC) in diversi sottogruppi di cellule immunitarie, in particolare verso le linee linfoidi e mieloidi. In effetti, ogni sottogruppo cellulare presenta un profilo di metilazione unico, con notevoli differenze tra le cellule delle linee mieloidi e linfoidi [12]. La metilazione del DNA è aumentata con la differenziazione linfoide ma ridotta nella differenziazione mieloide [13] È interessante notare che negli esseri umani l'inattivazione degli enzimi di demetilazione del DNA TET è stata associata a diverse neoplasie mieloidi, poiché la mieloproliferazione prevale sul differenziamento cellulare [14]. Durante ogni fase del loro sviluppo, le cellule B subiscono cambiamenti di metilazione. Nelle prime fasi della differenziazione nel midollo osseo, questi cambiamenti sono considerati determinanti per la linea cellulare. La metilazione del DNA e l'acetilazione dell'istone sono coinvolte anche nella ricombinazione V(D)J [15]. Per quanto riguarda il compartimento delle cellule T, quando si verifica la differenziazione delle cellule T, è necessaria la metilazione del DNA del locus CD4 per la sua repressione nelle cellule CD8+ e la sua espressione nelle cellule CD4+, come dimostrato nei modelli murini [16]. Nel timo, l'interazione DNMT1 con il fattore di trascrizione FOXP3 (Forkhead Box P3) induce lo sviluppo di cellule T regolatorie (Treg)[30]. Dopo l'attivazione delle cellule T, la demetilazione attiva del DNA è essenziale per la sintesi dell'interleuchina-2 (IL2) e per la polarizzazione delle linee cellulari in T helper-1 (Th1), Th2 e Th17 [17,18]. Il ruolo del meccanismo di metilazione del DNA è stato anche descritto nel sistema mono-macrofagico durante la differenziazione dei monociti in macrofagi e la loro polarizzazione in uno stato "M1" o in un fenotipo "M2" antinfiammatorio, nonché nel mantenere il fenotipo dei neutrofili completamente differenziato [19]. L'ampia profilazione dell'espressione dell'mRNA ha ampiamente dimostrato come l'ematopoiesi e l'impegno del differenziamento cellulare siano anche accompagnati e orchestrati da cambiamenti nelle firme dell'mRNA [20]. Ad esempio, passaggi rilevanti nella linfopoiesi delle cellule T e B si basano sulla regolazione genica da parte di set specifici di miRNA [21]. In particolare, l'ematopoiesi subisce anche la regolazione da parte di lncRNA che stimolano la proliferazione e la differenziazione dei progenitori eritroidi prendendo di mira GATA1, TAL1 e KLF1, così come la differenziazione dei granulociti, grazie a HOTAIRM1, che agisce come regolatore del ciclo cellulare [22-23].
Alterazioni epigenetiche negli errori congeniti dell'immunità
Poiché la corretta istituzione dei modelli di metilazione del DNA è necessaria per la differenziazione delle cellule del sistema immunitario, la compromissione del meccanismo di metilazione del DNA provoca disfunzioni immunitarie e malattie. Storicamente conosciute come immunodeficienze primarie, le malattie mendeliane del sistema immunitario sono ora indicate come Errori congeniti dell’Immunità (IEI), una definizione più precisa e più ampia che tiene conto del caratteristica tradizionalmente nota di una maggiore suscettibilità alle infezioni insieme a notevole disregolazione immunitaria e/o iperinfiammazione [24,25]. Circa 500 geni sono stati inclusi nella più recente classificazione dell'International Union of Immunological Societies (IUIS) [26,27]. Nelle sezioni seguenti, è descritto il potenziale coinvolgimento delle alterazioni epigenetiche nella patogenesi di alcuni errori congeniti dell'immunità.
4.1. Errori congeniti dell'immunità umorale
Per immunodeficienza variabile comune (CVID) si intende un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzato da ipogammaglobulinemia e ridotta risposta alle vaccinazioni. La CVID è caratterizzata da marcata eterogeneità genetica e fenotipica e varianti monogeniche sono state identificate in non più del 10% dei pazienti [28]. Alterazioni epigenetiche, come la metilazione del DNA e le modificazioni degli istoni, possono essere teoricamente immaginate come potenziali meccanismi implicati in casi geneticamente indefiniti, come suggerito da alcuni studi, descritti di seguito.
Nelle prime fasi del differenziamento delle cellule B, durante la transizione dalle cellule pro-B alle cellule pre-B, si verifica un'alterazione della metilazione del DNA, specialmente nelle sequenze intrageniche e introniche, regioni [29] strettamente associate ai siti dei fattori di trascrizione correlati allo sviluppo delle cellule B, come EBF1, E2F e PAX5 [30]. Talmadge et al. hanno evidenziato una down-regulation dell’espressione del gene PAX5, secondaria ad ipermetilazione, in cavalli affetti da CVID [31]. Alterazioni più importanti nella metilazione del DNA si osservano nella transizione dalle cellule B naïve alla memoria del centro germinale e alle plasmacellule. La differenziazione delle cellule B è associata a una graduale demetilazione del DNA [32], con un grado simile di metilazione del DNA nelle cellule di memoria e nelle plasmacellule, sebbene queste due linee cellulari abbiano diversi profili trascrizionali [33]. Uno studio su gemelli monozigoti CVID-discordanti ha rivelato un aumento della metilazione del DNA dei geni critici per lo sviluppo dei linfociti B, come PIK3CD, BCL2L1, RPS6KB2, TCF3 e KCNN4 nel fratello affetto, rispetto al fratello sano. Questa ipermetilazione, osservata sia nei linfociti B della memoria non-switched che switched, determina la down-regulation di tali geni e, di conseguenza, la disfunzione delle cellule B [34].
L’immunodeficienza con instabilità centromerica e sindrome da anomalie facciali (ICF) è una malattia rara causata da mutazioni bialleliche nelle DNA metiltransferasi, caratterizzata da instabilità dell'eterocromatina pericentromerica dei cromosomi 1, 9 e 16, peculiari anomalie facciali e difetto del sistema immunitario. Quest'ultima può avere un grado di gravità variabile, che va dall'agammaglobulinemia completa alla diminuzione dei livelli di singole classi di immunoglobuline, linfopenia, risposta proliferativa delle cellule T [35-36] e, raramente, autoimmunità [35]. Le infezioni respiratorie e gastrointestinali ricorrenti sono caratteristiche tipiche.
Gli ICF sono classificati in base ai difetti genetici in ICF1, ICF2, ICF3 e ICF4, causate da mutazioni nei geni DNMT3B, ZBTB24, CDCA7 e HELLS, rispettivamente [37-38].
Per quanto riguarda ICF1, la maggior parte dei pazienti presenta mutazioni nel dominio catalitico di DNMT3B e mostra ipometilazione del DNA in determinate sequenze e geni ripetitivi non codificanti situate nell'eterocromatina inattiva, responsabili della decondensazione della cromatina e dell’instabilità cromosomica [39]. È stato ipotizzato che in questi pazienti le alterazioni del profilo di metilazione del DNA siano alla base di una alterata maturazione delle cellule B e generazione della memoria immunologica [40].
ZBTB24 è un altro regolatore dello sviluppo ematopoietico e, essendo altamente espresso nelle cellule B naïve, ha un ruolo fondamentale nella differenziazione delle cellule B [41]. Nei pazienti con ICF con mutazioni ZBTB24, è stato descritto un numero normale di linfociti B totali, naïve e cellule B della memoria non-switched, associato a diminuzione delle cellule B della memoria switched [41].
Infine, il gene HELLS, responsabile della ICF4, codifica per un gene ATP-dipendente linfoide-specifico, enzima implicato nel rimodellamento della cromatina, che forma un complesso con la proteina CDC7A, il cui difetto genetico alla base di ICF3. Insieme, attivano l'attività di rimodellamento della cromatina e, presumibilmente, come nei modelli murini, esercitano un controllo epigenetico sullo sviluppo delle cellule B [42].
La Sindrome di Kabuki (KS), una rara sindrome genetica multi-sistemica associata ad alterazioni immunologiche. È caratterizzata da caratteristiche facciali tipiche, ritardo dello sviluppo da lieve a moderato, malformazioni scheletriche e/o renali e anomalie immunologiche [43]. Bambini con KS potrebbe condividere alcune anomalie del sistema immunitario che si sovrappongono a CVID, come ad esempio ipogammaglobulinemia, aumentata suscettibilità ad infezioni del tratto respiratorio superiore e inferiore e un rischio più elevato di linfoproliferazione [44]. Sono state riportate anche manifestazioni autoimmuni, la più comune delle quali è la trombocitopenia autoimmune, con o senza anemia emolitica, seguita da tiroidite, celiachia e vitiligine [45,46]. Le indagini immunologiche nei pazienti con KS mostrano ipogammaglobulinemia, riduzione dei linfociti B naive, della memoria totali e della memoria switched [47]. Il 70% dei casi di KS è causato da mutazioni nell'istone metiltransferasi KMT2D [48], mentre i restanti casi sono dovuti a mutazioni dell'istone demetilasi KDM6A [49]. Entrambi i geni contribuiscono all'espressione genica durante l'embriogenesi.
I difetti immunitari descritti nei pazienti con KS possono dipendere da una perdita di metilazione H3K4 che si verifica a carico di fattori di trascrizione cruciali nella differenziazione dei linfociti T e B. La perdita di funzione di KMT2D potrebbe anche causare un'alterazione diretta della maturazione degli anticorpi, mentre l'autoimmunità può derivare dalla rottura della tolleranza delle cellule B o dalla generazione difettosa delle cellule Treg [50].
4.2. Errori congeniti dell'immunità adattativa
La sindrome da delezione 22q11.2 (22q11.2 DS) è il disturbo da microdelezione cromosomica più comune. È caratterizzato da un ampio spettro fenotipico e comprende difetti multiorgano con cardiopatie congenite, immunodeficienza, ipoparatiroidismo, anomalie genito-urinarie, anomalie palatali, ritardo dello sviluppo psicomotorio e sintomi psichiatrici [51]. Ad oggi non è stato identificato un singolo gene nella regione deleta che possa spiegare tutte le caratteristiche di 22q11.2DS. Alterazioni dei meccanismi epigenetici sono stati proposti per spiegare la variabilità clinica della sindrome [52]. Il fenotipo della 22q11.2 DS potrebbe derivare dalla somma dell'aploinsufficienza di alcuni dei geni codificati nella regione 22q11.2, nonché da difetti di metilazione istonica e del DNA [53].
Il gene TBX1 (T-box 1) è il gene candidato principale per spiegare le manifestazioni della malattia ed è coinvolto nell'accessibilità della cromatina e nella regolazione trascrizionale [54]. Analisi ChIP-Western blot di co-immunoprecipitazione hanno consentito di recente di dimostrare che TBX1 co-localizza con tre metiltransferasi H3K4. In modelli murini, l'aploinsufficienza di Tbx1 è associata a riduzione globale dei livelli di monometilazione dell'istone H3K4me1, causando l'espressione differenziale di alcuni geni codificanti proteine [55]. L'analisi della metilazione del DNA a livello di genoma condotta su pazienti 22q11.2D [53] ha portato all'identificazione di 160 sonde CpG differenzialmente metilate. Inoltre, il profilo di metilazione del DNA descritto era diverso nei pazienti portatori di delezioni tipiche rispetto ai pazienti con delezioni distali atipiche. Identificare i geni bersaglio e le conseguenze funzionali delle sequenze differenzialmente metilate dell'istone e del DNA in 22q11.2 DS aiuterà a capire meglio la patogenesi della sindrome.
La disregolazione di miRNA e lncRNA dovuta alla microdelezione potrebbe aiutare altresì a spiegare l'eterogeneità dei fenotipi immunologici e clinici della sindrome.
Studi suggeriscono che una funzione ridotta di miR185, tra gli altri, può contribuire a una diminuzione espressione della tirosina chinasi di Bruton (Btk) e della proteina della zona marginale B1 (Mzb1), quindi spiegando una successiva riduzione delle cellule B di memoria [52].
La displasia immuno-ossea di Schimke (OMIM 242900) è una malattia autosomica recessiva, dovuta a mutazioni nel gene SMARCAL1 che codifica per SWI/SNF, associata a matrice, regolatore actina-dipendente della cromatina, un enzima di rimodellamento della cromatina. La funzione di SMARCAL1 è quella di regolare la trascrizione attraverso il rimodellamento della cromatina [56]. Il fenotipo clinico comprende: caratteristiche dismorfiche, bassa statura con anomalie scheletriche, come la displasia spondilo-epifisaria e l'esagerata lordosi lombare; e arteriopatia. Funzionalità renale compromessa e deficienza immunitaria consistente in ricorrenti sono state segnalate anche infezioni batteriche, virali o fungine [57]. I test di laboratorio mostrano linfopenia, risposta proliferativa indotta da mitogeni assente, riduzione di CD8 e CD3/CD4 [58]. Le mutazioni con perdita di funzione in SMARCAL1 possono portare all'instabilità del genoma, da allora l'enzima riconosce le transizioni dal DNA a filamento singolo a quello a doppio filamento.
4.3. Errori congeniti dell'immunità innata
Non è stato condotto alcuno studio sulle modifiche del profilo di metilazione in questo sottogruppo di disturbi. Tuttavia, dato che le vie di segnalazione interessate in questi
malattie, come quella del TLR4, sono state considerate responsabili in alcuni casi di modifiche della metilazione del DNA, è possibile ipotizzare che la metilazione del DNA possa esercitare un ruolo meccanicistico nella patogenesi di alcuni disturbi o, presumibilmente, in modulare la storia naturale.
La suscettibilità mendeliana alla malattia micobatterica (MSMD) è una rara condizione ereditaria caratterizzata da predisposizione selettiva a contrarre infezioni da micobatteri a bassa virulenza, quali il bacillo Calmette-Guerin e i micobatteri ambientali non tubercolari [59].
I pazienti con MSMD presentano altresì maggior rischio di salmonellosi, candidosi e, più raramente, di infezioni con altri batteri, funghi o parassiti intra-macrofagici [60]. Nove geni possono causare la MSMD [61]. Pacis et al. hanno dimostrato che l'infezione da Mycobacterium tuberculosis delle cellule dendritiche induce una rapida perdita di metilazione del DNA.
4.4. Errori congeniti dell'immunità con disregolazione immunitaria
Le varianti bi-alleliche con perdita di funzione in TET2 sono state associate a fenotipi simili a immunodeficienza e sindrome linfoproliferativa autoimmune (ALPS) con notevole predisposizione al linfoma [62]. TET2 è un regolatore epigenetico, fattore cruciale nelle cellule ematopoietiche, che facilita la demetilazione mediante l’ossidazione di 5-metilcitosina (5mC) a 5-idrossimetilcitosina (5hmC) e altri prodotti di ossidazione.
Le mutazioni loss-of-function in TET2 causano l'aumento della metilazione del DNA nelle cellule ematologiche; ciò implica il fallimento dello sviluppo controllato delle cellule B e l'espansione di cellule T doppio-negative [63]. Nei Tregs, TET è implicato nella stabilità delle molecole Foxp3. L'aploinsufficienza di TET2 è correlata a neoplasie ematologiche . Tuttavia, va ricordato che le mutazioni di TET2 si verificano anche in soggetti sani con ematopoiesi clonale, suggerendo che sono sufficienti per indurre il cancro [64,65]. Fattori estrinseci, come l’iperinfiammazione causata da infezioni, sembrano essere co-fattori nella carcinogenesi.
L'attività della citidina deaminasi (AID) indotta dall'attivazione è ostacolata in topi TET2-/-, causando anomalie della demetilazione. Complessivamente, questi cambiamenti compromettono la trascrizione di geni critici per l'uscita dal centro germinativo, la presentazione dell'antigene e il differenziamento delle cellule B del centro germinativo, concorrendo allo sviluppo di linfomi diffusi a grandi cellule B.
Pertanto, è ipotizzabile presumere che TET2 abbia un ruolo cruciale nella proliferazione cellulare e differenziazione [65].
Le proteine TET sono anche essenziali per punti specifici dello sviluppo delle cellule B, come la transizione da pro-B a pre-B e la differenziazione delle plasmacellule [66].
5. Conclusioni
L'espressione genica nel sistema immunitario è strettamente regolata da processi epigenetici, tra cui la metilazione del DNA, il rimodellamento della cromatina e le modifiche istoniche, che orchestrano lo sviluppo, la maturazione e il differenziamento cellulare. In tal senso, per ciascuna popolazione cellulare è possibile rilevare la signature di metilazione del DNA e i pattern di modifica degli istoni.
Le tecnologie di next generetion sequencing hanno consentito l'identificazione di diverse nuove forme di IEI, modificando sorprendentemente lo scenario e ampliando la conoscenza delle loro basi molecolari. Tuttavia, un'eziologia genetica deve ancora essere chiarita in molti casi; quindi, le alterazioni dei meccanismi epigenetici che controllano la trascrizione di geni coinvolti nella risposta immunitaria potrebbero contribuire alla patogenesi di almeno alcuni di questi disturbi.
Inoltre, sebbene la maggior parte delle IEI genetiche siano esempi paradigmatici di malattie monogeniche , un ampio spettro di gravità e fenotipi clinici è largamente riconosciuto.
Pertanto, le signature epigenetiche possono essere implicate nella regolazione dell'espressività della malattia e penetranza, probabilmente espandendone il fenotipo.
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Ylenia Giorgianni, Ludovica De Palma, Giovanni Conti
UOSD Nefrologia e Reumatologia Pediatrica con Dialisi, AOU G Martino, Messina
Febbre Mediterranea oggi
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Review Ylenia Giorgianni, Ludovica De Palma, Giovanni Conti
UOSD Nefrologia e Reumatologia Pediatrica con Dialisi, AOU G Martino, Messina
Febbre Mediterranea oggi Introduzione
La febbre ricorrente è definita da 3 o più episodi di febbre di origine sconosciuta che si verificano a distanza di almeno 7 giorni l’uno dall’altro e in un arco di 6 mesi. 1. L’approccio ad un paziente con febbre ricorrente è complesso, specialmente in età pediatrica, in quanto tale condizione può essere sostenuta da svariate patologie di origine infettiva, immunologica, oncologica e genetica. 2. Quando la febbre si presenta in modo ricorrente ed è più o meno
accompagnata da altri segni clinici e laboratoristici di infiammazione,
senza una chiara causa infettiva, dobbiamo considerare la possibilità di
trovarci di fronte ad una sindrome autoinfiammatoria. Le malattie autoinfiammatorie (AIDs- Autoinflammatory deseases) comprendono un gruppo eterogeneo di disordini del sistema immunitario innato che si manifestano con episodi febbrili acuti, spesso preceduti da brivido e accompagnati da sintomatologia muco-cutanea (afte, lesioni simil-erpetiche al cavo orale) e/o faringea, oculare, gastrointestinale (dolori addominali, vomito, alterazioni dell'alvo), articolare (artrite, artralgia, mialgie), neurologica con aumento degli indici di flogosi. 3 Le malattie autoinfiammatorie, pertanto, nella pratica clinica coinvolgono il pediatra/medico di famiglia e, nelle tappe successive, anche figure specialistiche quali il reumatologo, il nefrologo, il gastroenterologo e, non ultimo, il chirurgo che potrebbero, nella diagnostica differenziale di “febbre e dolore addominale acuto o ricorrente" doversi confrontare con questa patologia misconosciuta.
Le sindromi autoinfiammatorie che si manifestano con febbre ricorrente possono essere classificate in due categorie:
1. Ereditarie, tra le quali annoveriamo le cosiddette Febbri Periodiche Monogeniche ovvero la Febbre Mediterranea Familiare (FMF), la sindrome TRAPS (Tumor necrosis factor Receptor Associated Periodic Syndrome), la Sindrome da deficit di mevalonato-chinasi (MKD) anche detta Sindrome da Iper-IgD (HIDS) e la sindrome CAPS (Cryopyrin associated periodic syndrome);
2. Non ereditarie tra cui la sindrome PFAPA (Periodic Fever, Apthous stomatitis, Pharyngitis, Adenitis) che, seppure una causa genetica non sia stata ad oggi identificata, presenta alcune caratteristiche che la accomunano alle sopra citate condizioni. 
Figura 1. Approccio diagnostico alle febbri ricorrenti
In questa review, ci soffermiamo sulla Febbre Mediterranea Familiare, che è la più comune malattia auto infiammatoria soprattutto in Italia.
La Febbre Mediterranea Familiare (FMF) è una malattia genetica ereditata con modalità autosomica recessiva, il cui gene MEFV è localizzato sul braccio corto del cromosoma 16. Sono state riconosciute più di 30 mutazioni, le più frequenti delle quali sono la M694V e la M680I.
L'esordio della malattia avviene di solito prima dei vent'anni di età. È caratterizzata da attacchi febbrili ricorrenti, che insorgono acutamente, di breve durata, associati ad uno dei seguenti sintomi: dolori addominali spesso con versamento peritoneale, dolore toracico da pleurite, interessamento articolare, manifestazioni cutanee tipo erisipela, mialgie, pericardite, orchite acuta, afte orali, splenomegalia, meningite asettica. Nell'intervallo tra un attacco e l'altro, i pazienti godono di buona salute. 5
In Italia è considerata una malattia rara, ma si ritiene che sia per lo più misconosciuta e/o sotto diagnosticata. Colpisce prevalentemente le popolazioni che abitano il bacino del Mediterraneo: Ebrei non-Ashkenazi, Turchi, Armeni, Arabi, Greci; tuttavia, con le innumerevoli migrazioni compiute da tali popoli nel corso dei secoli, il gene responsabile di questa malattia si è diffuso anche in Europa Occidentale in paesi come il nostro, la Francia o la Spagna e in Medio-Oriente. 6
1. Patogenesi
Il gene responsabile della FMF è il MEFV che codifica per la pirina/marenostrina, proteina coinvolta nella risposta infiammatoria e più precisamente nella regolazione della produzione dell’interleuchina-1 (IL-1).
La pirina/marenostrina è una proteina basica di 781 aminoacidi organizzati in più domini con differenti funzioni. La funzione risultante sembra essere quella di regolazione (downregulator) dei mediatori dell'infiammazione. 7, 8 A supporto di ciò, vi è l'osservazione che la pirina è espressa esclusivamente dai granulociti neutrofili maturi che sono la popolazione cellulare più numerosa nei processi infiammatori acuti. Inoltre, dal momento che lo mRNA del MEFV non è stato identificato a livello del midollo osseo o nelle linee cellulari pre-promielocitiche, è stato ipotizzato che tale proteina venga espressa unicamente durante l'attivazione acuta dei neutrofili maturi.
La mancanza di espressione della pirina a livello delle cellule sinoviali o peritoneali, poi, suggerisce che essa non esercita il suo effetto con modalità tessuto-specifica. Quindi, una mutazione a carico della pirina comporterebbe un'incontrollata attivazione e migrazione dei neutrofili verso le sierose. La ragione di tale tropismo non è nota.
L'ipotesi patogenetica più moderna è che la pirina sia parte di complesso molecolare definito inflammasoma in cui interagiscono varie proteine, che appartengono alla superfamiglia delle proteine cosiddette "della morte", in quanto possiedono un “death domain”, in genere coinvolto nel meccanismo dell’apoptosi. Dall’interazione di tali proteine si ha induzione all’autocatalisi della procaspasi-1 in caspasi-1, con la conseguente attivazione della IL1-ß. La pirina, anch’essa appartenente alla famiglia delle proteine della morte sembra avere un ruolo di controllo negativo sulla sintesi dell’interleuchina, inibendo l’autocatalisi della pro-caspasi-1. Pertanto, nei pazienti con mutazioni a carico del gene MEFV, si avrebbe una pirina alterata, non in grado di effettuare una adeguata inibizione della sintesi di IL1- ß , prolungando di conseguenza l'emivita e l'attività del fattore chemiotattico dei neutrofili così da consentire un sufficiente afflusso di neutrofili nelle sierose e il conseguente rilascio dei loro prodotti di degranulazione. Il risultato è una spirale di attivazione che conduce ad un'esplosione infiammatoria - l'attacco di FMF, per l'appunto - anche in presenza di stimoli minimi o inapparenti. 9 Il deficit della pirina, presente nei pazienti con FMF, tuttavia, non si evidenzia in maniera continua, ma episodicamente, in concomitanza di eventi "stressanti". Un qualsiasi stimolo flogistico, in grado di dare inizio alla cascata pro-infiammatoria (attivazione dell’inflammasoma con produzione dell’IL- ß) può rappresentare l’evento scatenante della crisi.
In questa maniera il meccanismo patogenetico della FMF ricalca quello di molte altre patologie genetiche in cui uno stimolo, generalmente innocuo, va a perturbare in maniera intermittente, un sistema fisiologico già deficitario.
2. Clinica
2.1. Esordio. I primi sintomi di malattia compaiono nella prima infanzia e nel 80-90% dei casi prima dei 20 anni. 10 L’esordio dopo i 40 anni è abbastanza raro e la malattia in questi casi è spesso caratterizzata da un decorso più lieve. 11 L'incidenza nel primo anno di vita è difficile da accertare, anche se non vi è alcun dubbio che i sintomi possono già iniziare a sole due settimane dalla nascita.
2.2 Caratteristiche. La malattia si presenta sottoforma di attacchi ricorrenti. L'attacco tipico è caratterizzato da febbre e sierosite della durata variabile di 1-4 giorni e si risolve spontaneamente. La frequenza degli attacchi può variare da uno a settimana fino a uno ogni 3-4 mesi o più. La severità e la frequenza degli attacchi, generalmente, decrescono nei pazienti più anziani.
-La febbre è presente nella quasi totalità degli attacchi (97%); la temperatura corporea può raggiungere valori di 38 - 40°C. Nel 20-30% dei pazienti il rialzo febbrile è preceduto da brividi; la febbre generalmente dura dalle 12 alle 72 ore. Anche se raramente, può costituire l'unica manifestazione di FMF (soprattutto nei bambini possono aversi brevi picchi di temperatura fino a 40°C senza altri sintomi e segni, della durata di poche ore).
-Il dolore addominale è presente nel 95% dei pazienti; nel 50% di essi come prima manifestazione di malattia. Il quadro clinico può essere quello tipico di una peritonite con addome teso, non trattabile, segno di Blumberg positivo, peristalsi intestinale torpida, livelli idroaerei all'RX dell'addome e/o piccola falda ascitica all'ecografia dell'addome. Il dolore addominale, generalmente, precede la febbre di poche ore e persiste per 1-2 giorni dopo la scomparsa della stessa; può essere localizzato (epigastrio, ipocondrio o fossa iliaca destra) e poi diffuso o essere diffuso fin dall'inizio. Altre volte può rimanere localizzato e simulare una appendicite o una colecistite. Il 30-40% dei pazienti va incontro ad interventi chirurgici quasi sempre non necessari (appendicectomia, colecistectomia, altro) in quanto non risolvono la sintomatologia clinica, che si ripresenta inevitabilmente a distanza variabile di tempo. Meno frequentemente può essere interessato anche il peritoneo posteriore, mimando, in tal caso, una colica renale o una malattia infiammatoria pelvica acuta (PID) o ancora il peritoneo sovraepatico simulando una colica biliare anitterica. Le peritoniti ricorrenti della FMF possono accompagnarsi alla formazione di aderenze.
-L'interessamento articolare è la terza più frequente manifestazione clinica di FMF (75%). Traumi di lieve entità o sforzi fisici, come per esempio lunghe passeggiate, possono precipitare gli attacchi articolari. Clinicamente si distinguono 4 forme: artralgie transitorie o abortive; mono-, oligo-artriti acute (95%) che colpiscono le grandi articolazioni degli arti inferiori (anca, ginocchio, caviglia) o degli arti superiori (polsi); artriti protratte iniziano nel corso di un attacco acuto, ma si protraggono oltre la durata dello stesso; artriti croniche distruttive (2-5%)in cui le articolazioni più colpite sono le anche e le ginocchia (in questa categoria rientra anche una sacro-ileite HLA B27 negativa). Al di là di alcune sedi elettive, in corso di FMF possono essere colpite tutte le articolazioni. Gli attacchi articolari sono più comuni nei pazienti con mutazione M694V e sono associati a forme più gravi di malattia maggior rischio di amiloidosi AA.
-Il dolore toracico dovuto ad un interessamento della pleura è un'altra manifestazione della FMF (45%). Presenta le caratteristiche di una tipica pleurite acuta monolaterale ad insorgenza improvvisa e rapida risoluzione (le pleuriti da piogeni, invece, durano più a lungo): dolore trafittivo che aumenta con l'inspirazione profonda. La pericardite è un'evenienza più rara (0,5%) e si manifesta con dolore retrosternale ad insorgenza improvvisa, segni elettrocardiografici (l'elevazione del tratto ST), evidenza ecocardiografica di versamento o slargamento del profilo cardiaco all'Rx torace.
-Le manifestazioni cutanee, erisipela-like, (7-40%) sono rappresentate da lesioni del diametro fino a 10-15 cm, eritematose, calde, rilevate, molli alla palpazione, localizzate tra l'anca e il ginocchio, sulla superficie anteriore della gamba o sul dorso del piede e di breve durata. La loro comparsa può associarsi a bruschi aumenti della temperatura corporea, che durano 24-48 ore.
-Le mialgie in corso di FMF possono presentarsi con 3 aspetti differenti: spontanee; indotte dallo sforzo; mialgia febbrile protratta. Le distinguono il grado di febbre, la severità del dolore e la durata.
-Fra le manifestazioni cliniche minori si ricordano l'orchite acuta con edema scrotale e dolore, la meningite asettica di Mollaret, alterazioni elettroencefalografiche asintomatiche, la retinopatia con riscontro di corpi colloidali all'esame del fundus oculi, la splenomegalia, le afte orali. 10, 12
Tradizionalmente gli intervalli tra un attacco e l'altro vengono definiti "liberi": i pazienti godono di buona salute e recuperano pienamente tutte le loro attività. Recentemente, però, sono state descritte delle manifestazioni cliniche cosiddette protratte o croniche all'interno di tali intervalli, alcune delle quali conseguenza di sierositi ripetute (peritonite sclerosante, pericardite costrittiva), altre vere e proprie manifestazioni infiammatorie croniche o conseguenze della deposizione amiloidotica (artrite cronica distruttiva, fibromialgia, sterilità maschile e femminile) ed altre ancora effetti collaterali della terapia con Colchicina (diarrea cronica, alopecia, sterilità e teratogenicità da Colchicina).
Il decorso eterogeneo della FMF deriva da una complessa interazione tra gene (varianti MEFV) e fattori ambientali. 13 La malattia, quando associata ad una singola mutazione (MEFV eterozigote) è tipicamente più lieve che negli individui omozigoti o eterozigoti composti per varianti patogene e caratterizzata da insorgenza tardiva, attacchi meno frequenti, risposta più favorevole alla colchicina e minor rischio di complicanze della malattia. 14 I sintomi e la gravità della FMF possono variare tra individui affetti con la stessa variante MEFV, anche tra membri della stessa famiglia suggerendo il contributo di una serie di modificatori, inclusi altri geni, fattori epigenetici e fattori ambientali. 12,15
2.3 Fenotipi. Esiste un sottogruppo di pazienti costituenti il cosiddetto "fenotipo II della FMF" che presentano amiloidosi (prevalentemente renale) senza storia di attacchi ricorrenti di febbre e sierosite, né altre malattie infiammatorie o infezioni croniche; la febbre è riferita solo dal 10% di questi pazienti e non è specifica; l'interessamento articolare è di tipo artralgico e il dolore addominale, quando presente, non è tipico. Sono per lo più soggetti di sesso maschile, con storia familiare di "nefropatia di ndd" che cominciano a manifestare i primi sintomi di amiloidosi (proteinuria, sindrome nefrosica) ad un'età maggiore rispetto ai pazienti con FMF e amiloidosi (fenotipo I). 16
Più di recente è stato identificato anche un terzo fenotipo FMF, denominato appunto fenotipo III; si tratta di pazienti con doppia mutazione del MEFV (omozigosi o eterozigosi composita), ma clinicamente del tutto asintomatici. 17
2.4 Complicanze. L'unica grave complicanza della FMF è una complicanza a lungo termine, l'Amiloidosi. Essa colpisce prevalentemente i reni con proteinuria persistente o ingravescente fino alla sindrome nefrosica e all'insufficienza renale cronica, ma può interessare anche altri organi come l'intestino (diarrea e malassorbimento), la milza e il fegato (epatosplenomegalia), il cuore e le ghiandole endocrine.
E' di tipo AA, come tutte le forme reattive ad infezioni e malattie infiammatorie croniche (morbo di Crohn, TBC, tumori maligni, bronchiectasie, m. di Hodgkin). L'M694V è la mutazione genetica che maggiormente correla con lo sviluppo di amiloidosi. 18
3. Diagnosi
Nonostante la clonazione del MEFV e la scoperta di oltre 30 mutazioni a suo carico, ancora oggi, non si dispone di un test accurato e sicuro per la diagnosi di FMF, che rimane esclusivamente clinica. La diagnosi clinica è facile in presenza di attacchi acuti tipici che si verificano in soggetti appartenenti ai ceppi etnici notoriamente colpiti e con storia familiare positiva per FMF.
3.1. Criteri Diagnostici. Al fine di facilitare la diagnosi di FMF soprattutto in medici con scarsa esperienza di tale malattia e di unificare le coorti di pazienti colpiti, nel corso degli anni sono stati elaborati da diversi autori dei criteri di supporto diagnostico. I criteri più ampiamente accettati per la diagnosi dei casi tipici sono quelli di Tel Hashomer che si dividono in criteri maggiori, minori e di supporto.
L'importanza e la validità dei criteri di Tel-Hashomer risiede nel fatto che includono anche il fenotipo 2, gli attacchi incompleti, gli episodi esclusivamente febbrili e la risposta alla Colchicina.
Accanto ai criteri diagnostici completi abbiamo quelli semplificati suggeriti da Livneh et al. Per la diagnosi sono richiesti almeno 1 criterio maggiore o 2 criteri minori. 
Figura 2. Criteri semplificati Tel Hashomer
Per i bambini, i nuovi criteri diagnostici di Yalcinkaya-Ozen avrebbero una sensibilità maggiore rispetto agli altri. Sono richiesti almeno 2 criteri tra i seguenti:
1. Episodi febbrili (temperatura corporea ascellare >38 °C)*
2. Dolore addominale*
3. Dolore toracico*
4. Oligoartrite*
5. Anamnesi familiare di febbre mediterranea familiare. 12
* Durata di 6-72 ore, almeno 3 attacchi
3.2. Diagnosi genetica. Lo studio genetico delle mutazioni del MEFV non ha ancora raggiunto l'accuratezza diagnostica auspicabile. L'analisi delle mutazioni genetiche, pertanto, non si sostituisce alla diagnosi clinica, ma ne costituisce solo un semplice supporto. Essa può rivelarsi particolarmente utile solo nei pazienti con presentazione atipica, in cui si evidenzino due mutazioni del MEFV.
La diagnosi genetica di FMF è positiva quando sono presenti 2 mutazioni nel locus del gene MEFV, una per ciascun allele, non necessariamente identiche. Gli individui con la stessa mutazione su entrambi gli alleli si definiscono omozigoti per tale mutazione; quelli con due mutazioni differenti, doppi eterozigoti.
E' negativa, invece, quando sono presenti meno di 2 mutazioni; in tal caso il gene dovrebbe essere indagato interamente (comprese le regioni non codificanti), cosa che non è possibile effettuare di routine. In presenza di 1 o nessuna mutazione, il test non è contributivo per la diagnosi genetica, ma non inficia la diagnosi clinica, in quanto non si può escludere la presenza di mutazioni ancora sconosciute.
Inoltre per evitare errori nella diagnosi genetica, bisogna testare i genitori (che possono essere entrambi portatori o presentare, uno solo dei due, un complex allele che è andato incontro a crossing-over), e usare sistematicamente 2 tecniche per ogni mutazione.
Shinar et al. ha proposto una serie di linee guida per i test genetici delle febbri ricorrenti ereditarie inclusa la FMF che prevedeva la ricerca di un totale di 14 varianti (le prime nove definite come chiaramente patogene, mentre le restanti cinque di significato sconosciuto): M694V, M694I, M680I, V726A, R761H, A744S, E167D, T267I, I692del, K695R, E148Q, P369S, F479L e I591T. Secondo questa linea guida, sulla base dei test genetici si possono configurare cinque diversi possibili scenari (con il presupposto che il paziente abbia sintomi compatibili con FMF, almeno attacchi di febbre inspiegabili):
-se il paziente è omozigote per mutazioni patogene, la diagnosi di FMF è confermata e il trattamento deve essere iniziato senza bisogno di testare i genitori;
-se il paziente è eterozigote composto per due mutazioni patogene e le mutazioni sono su alleli separati, la diagnosi di FMF è confermata e il trattamento dovrebbe essere avviato;
-se c'è una mutazione patogena e una mutazione incerta su alleli separati, ci deve essere un'ulteriore conferma clinica come elevati livelli di PCR durante gli attacchi e/o elevati livelli di SAA tra gli attacchi per avviare il trattamento;
-se vengono segnalate due varianti di significato sconosciuto o se c'è solo una mutazione chiaramente patogena, il clinico dovrebbe considerare le altre sindromi febbrili periodiche e valutare i livelli degli indici di flogosi in fase acuta;
-Se viene segnalata solo una variante di significato incerto, la diagnosi di FMF è molto improbabile. 19
Dalla prima descrizione del gene MEFV, la maggior parte degli esperti e degli studi hanno dimostrato che la variante M694V è correlata ad un fenotipo grave. Sia Shinar et al. che le raccomandazioni SHARE hanno definito E148Q come una variante di significato sconosciuto. 3,19,20 SHARE (Single Hub and Access point for Paediatric Rheumatology in Europe - Centro e punto di accesso unico per la reumatologia pediatrica in Europa) è un'iniziativa europea finanziata per suggerire linee guida e quindi ottimizzare la gestione delle principali malattie reumatiche pediatriche. Tra i compiti vi era quello di sviluppare delle raccomandazioni per la diagnosi genetica di FMF. Di seguito alcuni punti salienti:
-FMF è una diagnosi clinica, che può essere supportata ma non escluso dai test genetici;
-pazienti con FMF portatori di due dei comuni alleli mutati (omozigoti o eterozigoti composti), soprattutto per mutazione M694V o mutazioni alla posizione 680–694 sull’esone 10, sono considerati a rischio di una forma grave di malattia;
-la variante E148Q è comune, di significato patogeno sconosciuto e, se come unica variante MEFV, non è sufficiente a supportare la diagnosi di FMF;
-per individui che hanno due mutazioni patogene per FMF che non riferiscono sintomi, se ci sono fattori di rischio per amiloidosi A (come il paese, l’anamnesi familiare ed indici di flogosi persistentemente elevati, in particolare la proteina SAA), dovrebbe essere avviato un attento follow-up e considerato l’eventuale trattamento;
-la consultazione con uno specialista esperto in AIDs può essere utile per aiutare nell'indicazione e nell'interpretazione dei test genetici e quindi nella diagnosi. 20
Con la crescente disponibilità di test genetici, si è visto che più pazienti con quadro clinico di FMF sono portatori di una mutazione eterozigote del gene MEFV, e sono trattati con la colchicina con successo. Il paradigma della FMF come una malattia autosomica recessiva può essere messa in discussione dal momento che è stato riportato un modello di trasmissione di tipo autosomico dominante (AD).21 Recentemente anche un gruppo britannico ha descritto 21 pazienti su 3500 testati che presentavano la delezione AD della metionina in una specifica posizione (p.Met694) con manifestazioni classiche di FMF e buona risposta alla colchicina.22 Inoltre, in uno studio eseguito presso il centro di Nefrologia e Reumatologia Pediatrica di Messina, 107 pazienti con FMF, la maggior parte (86%) presentava mutazioni eterozigoti (p.Met680Ile o p.Met694Val). Alla luce di questo risultato, si è ipotizzata la presenza di una trasmissione AR “non classica” o una trasmissione AD “atipica” nei pazienti con FMF. 23, 24
3.3 Esami di laboratorio. Non esistono test di laboratorio specifici per la diagnosi di FMF al di là del test genetico. I comuni esami ematochimici in pazienti con attacco acuto evidenziano un aumento generalizzato degli indici di flogosi (VES, Proteina C rettiva, SAA, fibrinogeno, ferritina, ceruloplasmina, transferrina, a1-antitripsina...) e leucocitosi neutrofila (anche fino a 20.000 e più globuli bianchi/mm3) che vanno incontro a completa normalizzazione con la risoluzione della sintomatologia. In caso di amiloidosi renale, all'esame urine si riscontrano microalbuminuria e/o proteinuria associate a ipoprotidemia e ipoalbuminemia; aumento degli indici di funzionalità renale e riduzione della creatinina clearance nelle fasi terminali dell'insufficienza renale amiloidotica. 12
4. Terapia
Gli obiettivi del trattamento nella FMF sono il miglioramento della qualità di vita riducendo la frequenza, la gravità e la durata degli attacchi e la prevenzione dei danni a lungo termine, in particolare l’Amiloidosi AA minimizzando l’infiammazione cronica/subclinica. 25
4.1. Colchicina
La Colchicina è il trattamento di scelta nei pazienti con FMF fin dai primi dati riportati da Goldfinger nel 1972.26 E’ indicata oltre che nel trattamento della FMF anche nella cura di disordini infiammatori, quali gotta, morbo di Behçet, cirrosi epatica, sclerodermia, fibrosi polmonare idiopatica, pericarditi benigne ricorrenti, varie dermatosi, morbo di Alzheimer.
4.1.1 Posologia Il trattamento è generalmente iniziato alla dose sub-terapeutica di 0,5 mg/giorno e monitorato in base all'attività della malattia e alla tolleranza del paziente. Dosi più elevate fino a 2 mg/die nei bambini e fino a 3 mg/die negli adulti possono essere utilizzate per controllare l’attività della malattia e amiloidosi. 27,28 L'omissione di una dose giornaliera può essere prontamente seguita da un attacco. La colchicina, oltre ad influenzare gli attacchi, si è dimostrata soprattutto in grado di prevenire la deposizione della sostanza amiloide. Per tale ragione, attualmente viene raccomandata anche nei pazienti non-responders a dosi di 2 mg/die, a scopo profilattico.
4.1.2. Effetti collaterali e tossicità La loro incidenza aumenta nei pazienti anziani, in quelli con insufficienza epatica o renale. Gli effetti collaterali possono essere:
-gastrointestinali: nausea, vomito, dolore addominale e diarrea;
-muscolari: miopatia con astenia prossimale severa e aumento delle CK; in genere recupera in 4-6 settimane dalla sospensione del farmaco;
-neurologici: disestesie, riduzione dei R.O.T.;
-ematologici: leucopenia, piastrinopenia, anemia emolitica, assai rari;
-cutanei: rash e alopecia; 29
Resta il problema dei pazienti intolleranti ad essa, per i quali al momento non si dispone di alcun trattamento alternativo di efficacia sovrapponibile e provata.
4.1.3. Interazioni farmacologiche Riduce l'assorbimento della cianocobalamina. Può interferire con il metabolismo di farmaci che utilizzano la sua stessa isoforma del citocromo P450 (CYP 3A4).
I macrolidi sono controindicati nel corso del trattamento con la colchicina.
4.1.7 Recenti raccomandazioni Recentemente un gruppo di pediatri e internisti ha suggerito delle raccomandazioni per la gestione della FMF, approvate dalle European League Against Rheumatism (EULAR) e Pediatric Rheumatology European Society (PRES). Alcune delle raccomandazioni più importanti possono essere riassunte come segue:
-il trattamento con colchicina deve essere iniziato non appena viene fatta la diagnosi clinica;
-la persistenza degli attacchi o dell'infiammazione subclinica rappresenta un'indicazione per aumentare la dose di colchicina;
-i pazienti che aderiscono al trattamento e non rispondono alla dose massima tollerata di colchicina possono essere considerati non responder o resistenti; in questi pazienti sono indicati trattamenti biologici alternativi;
-il trattamento della FMF deve essere intensificato nell'amiloidosi AA utilizzando la dose massima tollerata di colchicina e integrata con farmaci biologici secondo necessità;
-gli enzimi epatici devono essere monitorati regolarmente; se gli enzimi epatici sono elevati più del doppio del limite superiore di normale, la colchicina dovrebbe essere ridotta;
-la colchicina non deve essere interrotta durante il concepimento, gravidanza o allattamento; 27
4.2. Farmaci biologici
Circa il 5-10% dei pazienti non risponde bene alla colchicina richiedendo un trattamento aggiuntivo. I pazienti resistenti alla colchicina (crFMF) o i pazienti intolleranti alla colchicina (ciFMF) sono pertanto candidati alle terapie biologiche.
4.2.1 Anti-interleuchina 1 Dal momento che la mutazione a carico della pirina è associata all’aumento della produzione di IL-1, il trattamento con anti-IL-1 rappresenta un’opzione promettente. Diversi studi hanno riportato risultati positivi in pazienti resistenti alla colchicina con agenti bloccanti IL-1, tra i quali Anakinra, Canakinumab e Rilonacept. 28
Una revisione della letteratura sul trattamento della FMF con anti-IL-1 ha riportato una risposta completa nel 76,5% dei pazienti trattati con Anakinra e nel 67,5% di quelli trattati con Canakinumab. 30
4.2.2. Anti interleuchina 6- Tocilizumab Si tratta di un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro il recettore dell'interleuchina-6 e ha un potente effetti soppressivo sulla produzione di APR. Sebbene la FMF sia considerata una malattia mediata da IL-1, nei pazienti con FMF le concentrazioni sieriche di IL-6 sono risultate elevate in particolare durante gli attacchi. In uno studio di Yilmaz et al. 11 pazienti con FMF e amiloidosi sono stati trattati con infusioni mensili di 8 mg/kg di tocilizumab per una durata di tre fino a 16 mesi. La proteinuria è migliorata o stabilizzata in otto pazienti e nessun attacco è stato osservato in dieci pazienti. Dopo la normalizzazione della proteinuria, i ricercatori hanno sospeso il trattamento con tocilizumab in due pazienti. Ciò ha portato ad una recidiva di proteinuria in entrambi i pazienti. 12,31,32
4.3 JAK inibitori
L'inibizione di JAK sopprime la fosforilazione costitutiva del fattore di trascrizione STAT-1, che blocca l'induzione di geni stimolati dall'IFN e successivamente porta alla regolazione della produzione incontrollata di IFN, causando le manifestazioni dell’infiammazione. Gli inibitori di JAK hanno dimostrato effetti positivi in molte malattie autoinfiammatorie monogeniche mediate dal IFN (chiamato anche interferonopatie). L'uso degli inibitori di JAK nelle inflammasomopatie monogeniche rimane aneddotico e limitato a sei pazienti con crFMF che in precedenza non avevano risposto ai bloccanti di IL-1, TNF e IL6. Tuttavia, è interessante notare che questi casi sono stati trattati con Tofacitinib con successo. 33
4. 4 Altri farmaci
I FANS migliorano i sintomi nella maggior parte dei pazienti con malattia autoinfiammatoria, ma di solito sono insufficienti e non agiscono sulla causa sottostante la malattia.
I glucocorticoidi, generalmente usati a dosi medie o alte, possono essere efficaci se somministrati su richiesta nella maggior parte delle condizioni monogeniche. Hanno dimostrato particolare utilità nei pazienti affetti da FMF con mialgia febbrile protratta e grave sierosite (a brevi cicli ad alte dosi). In effetti, i glucocorticoidi sono stati raccomandati per il trattamento di questa complicanza con un livello di evidenza 2B e grado di raccomandazione C. 33
Attualmente sono in fase di studio terapie diverse rispetto alla colchicina, tra cui analoghi sintetici della colchicina. Un gruppo di ricerca ha individuato 34 analoghi della colchicina; tali molecole sono state valutate in vitro, mediante chemioluminescenza, per evidenziare la capacità ossidativi dei neutrofili. Dai nostri studi, è emerso che gli analoghi non possiedono maggior effetto terapeutico rispetto alla colchicina. Tuttavia, sono ancora in corso ulteriori indagini. 
Figura 3. Linee di Trattamento
§ Anti-TNF (etanercept, infliximab, and adalimumab) hanno dimostrato maggiore utilità nei pazienti con prevalenti manifestazioni articolari
Ȣ Tocilizumab è stato utilizzato con efficacia in pazienti con FMF che non hanno risposto al trattamento con anti-IL1
# Tofacitinib ha determinato una buona risposta clinica in pazienti con crFMF che non hanno risposto al trattamento con anti-IL1, anti-IL6 e anti-TNF.
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Review Italo Farnetani
professore ordinario di Pediatria alla Libera Università degli Studi di Scienze Umane e Tecnologiche United Campus of Malta
Pubblicato da Fortune Italia
Gravidanza surrogata o utero in affitto Sono giorni caldi per il dibattito sull’utero in affitto. Ecco, chiamatelo “utero in affitto” oppure “gravidanza surrogata”: si tratta sempre di un fenomeno che non è né di destra né di sinistra. Da pediatra, basandomi sulle acquisizioni scientifiche, lo chiamerei “la madre sparita”.
Lascio ad altri le valutazioni sulla mercificazione del corpo umano, lo sfruttamento, anche economico, della donna. Mi fermo a esaminare la questione utero in affitto dalla parte del bambino. Gli studi di fisiologia e psicologia prenatale hanno dimostrato e documentato scientificamente, con pubblicazioni facilmente reperibili in tutte le banche date mondiali, che il feto dal sesto mese di gravidanza partecipa attivamente alla vita della mamma: riconosce la voce, la distingue fra le altre e, se sta zitta, mostra di preferire una voce femminile o, in subordine, quella che usa lo stesso idioma.
Inizia a formarsi il gusto: il feto gradisce i cibi che la mamma assume, perché trasmettono la sapidità al liquido amniotico. È dimostrato anche che quando sente la voce della mamma, aumenta il battito cardiaco e la frequenza respiratoria. Su questa base si è sviluppata il comportamento al momento del parto.
Se il bimbo nasce pretermine e sta in un’incubatrice, si cerca di far stare la mamma anche nella terapia intensiva,per quanto è possibile, in modo da garantire la continuità della presenza materna, proprio perché è la prima persona al mondo che il bambino abbia conosciuto.
Con la madre durante la vita intrauterina si crea un legame così forte che per i primi tre mesi di vita il neonato pensa di essere una sola cosa con lei. Allontanandolo repentinamente dalla madre, perde il punto di riferimento di base della sua conoscenza del mondo e dell’ambiente esterno.
Per lo stesso motivo, come accennavo, è cambiata anche l’impostazione al momento del parto. Prima di questi studi il bambino veniva dato in braccio alla mamma dopo qualche ora, perché prima si privilegiavano i trattamenti di adattamento alla vita neonatale. Oggi invece il bambino viene dato immediatamente alla mamma proprio perché ne conosce la voce e l’odore.
È un modo per fargli capire in modo concreto che c’è continuità col mondo precedente. Ma non è finita. E’ stato promosso l’allattamento al seno rispetto a quello artificiale non solo dal punto di vista nutrizionale e di trasmissione delle difese immunitarie, ma anche per garantire la relazione con la madre, che ripeto è stata la prima persona che il piccolo ha conosciuto.
È dimostrato anche che l’allattamento al seno nei primi giorni di vita viene favorito dall’odore del liquido amniotico e da quello della pelle della madre. Ora, se il bambino viene separato dalla madre e affidato a persone che non conosce, con voce, lingua e odore diversi da quelli della madre, si esercita una forma di violenza ed è veramente un trauma molto forte.
Senza allattamento al seno, giustamente definito “materno”, si priva il bambino di vantaggi talmente conosciuti da essere scontati: si ammalerà di più, avrà un maggior rischio di allergia, sarà privato di tutti i vantaggi psico-affettivi che il contatto con il seno materno determina. Insomma, avremo un bambino deprivato di molte cose per lui importanti. E non per un caso fortuito o un evento imponderabile.
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G .Cavò1, S.R. Abrami1, L. Rossano,1 G. Di Venti2, M.Parisi3
1 U.O.C. Pronto soccorso pediatrico con OBI, AOU “G.Martino”
2 U.O.S. Professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche, AOU “G.Martino”
3 Università degli Studi di Messina
Promozione dell’allattamento al seno
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News G .Cavò1, S.R. Abrami1, L. Rossano,1 G. Di Venti2, M.Parisi3
1 U.O.C. Pronto soccorso pediatrico con OBI, AOU “G.Martino”
2 U.O.S. Professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche, AOU “G.Martino”
3 Università degli Studi di Messina
Promozione dell’allattamento al seno L’organizzazione mondiale della sanità raccomanda l’allattamento esclusivo al seno per i primi sei mesi di vita per la prevenzione di diverse malattie e per lo sviluppo corretto del bambino, il latte materno può essere utilizzato anche dopo i sei mesi di vita associato agli alimenti complementari fino ai due anni o comunque fin quando madre e figlio lo desiderano. 
l'Oms insieme all’Unicef nel programma “ospedali amici dei bambini” considera fondamentale la formazione/informazione delle madri sugli aspetti positivi connessi all'allattamento materno ovvero:
•rafforza e consolida il legame del neonato con la mamma (bonding)
•fornisce al neonato un'alimentazione completa (benefici nutrizionali)
•protegge il neonato dalle infezioni, grazie anche al ruolo svolto dal colostro
•porta comprovati benefici alla salute della mamma
L’allattamento al seno rappresenta quanto di più naturale possa esistere, per il neonato è una competenza innata mentre per la mamma è una competenza culturale, spesso i neogenitori non sono adeguatamente informati sui benefici dell’allattamento al seno per questo è molto importante che professionisti sanitari si adoperino come promotori dell’allattamento al seno.
I benefici interessano sia il bambino che la mamma
Per il bambino ricevere il latte materno vuol dire ricevere un alimento completo per le sue esigenze è un latte ben bilanciato in acqua, proteine, vitamine e sali minerali, ma è ancora più prezioso perché, soprattutto il colostro fornisce al neonato immunoglobuline IgA utili come protezione dagli attacchi esterni da parte di microorganismi, è comprovato che i bambini allattati al seno si ammalano di meno non solo durante il periodo dell’allattamento ma anche in età adulta.
Per la mamma rappresenta la migliore relazione che può avere con il suo bambino oltre a un beneficio sulla propria salute legato al benessere delle mammelle e dell’apparato riproduttivo, il latte materno rappresenta anche vantaggi dal punto di vista pratico perché è sempre a porta di mano ed è più economico.
il latte è prodotto dalla ghiandola mammaria sotto il controllo di ormoni (prolattina e ossitocina) che ne regolano la produzione e la relativa fuoriuscita; il tutto è stimolato dal bambino che attraverso la suzione regola e modula la produzione di latte.
La prolattina, stimola le cellule delle ghiandole mammarie alla produzione di latte, la sua produzione dipende principalmente da un meccanismo riflesso legato alla suzione (riflesso prolattinico), più il bambino succhia, più prolattina la mamma produce entra in circolo dopo la poppata per produrre il latte della poppata successiva.
L’ossitocina, stimola la contrazione degli alveoli mammari favorendo la fuoriuscita del latte (riflesso ossitocinico), agisce prima e durante la poppata per favorire l’eiezione del latte. Questo riflesso però può essere inibito da situazioni negative come un intenso dolore (ad esempio in caso di ragade), da situazioni stressanti o imbarazzanti, per questo motivo è necessario creare attorno alla mamma e al bambino un ambiente calmo e rilassante, che ne favorisca la privacy, il benessere e di conseguenza una poppata soddisfacente.
La rooming-in e la Kangaroo mother care rappresentano momenti fondamentali per l’attaccamento madre-figlio e il successo dell’allattamento al seno.
I rischi di insuccesso sono rappresentati da:
-scarsa produzione di latte;
-difficoltà di eiezione del latte;
La scarsa produzione di latte può essere migliorata con la valutazione del corretto attaccamento al seno del bambino, allattando su richiesta del bambino garantendo 8 poppate nelle 24 ore, aspettare che il bambino si stacchi spontaneamente dal seno per non limitare la poppata garantendo sempre un ambiente confortevole che garantisca la privacy della mamma. 
Il bambino è attaccato correttamente al seno quando:
•la sua bocca è ben aperta ed il labbro inferiore è incurvato in fuori
•il mento del neonato tocca il seno
•vi sono lente e profonde suzioni
•si può sentire il neonato deglutire e non vi sono schiocchi o segnali di suzione a vuoto
•la mamma non avverte dolore 
L’eiezione del latte può essere favorita e migliorata con le spugnature del seno con acqua tiepida eseguendo delle manovre di spremitura manuale del seno, attaccare il neonato al seno e praticare delicati massaggi verso il capezzolo durante la suzione, può essere utile l’utilizzo del tiralatte. Bibliografia sitografia
Consales A, Crippa B.L, Cerasani J, Morniroli D, Damonte M, Bettinelli M E. Overcoming Rooming-In Barriers: A Survey on Mothers’ Perspectives. Front Pediatr. 2020;
Unione Europea, Organizzazione Mondiale della Sanità. Alimentazione dei lattanti e dei bambini fino a tre anni: raccomandazioni standard per l’Unione Europea. OMS 2006
https://www.salute.gov.it/portale/allattamento
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Cavò G.1, Abrami S.R.1, Pagano G.1, Di Venti G.2, Julieni Andrè Maria3
1 U.O.C. Pronto soccorso pediatrico con OBI, AOU “G.Martino” - 2 U.O.S. Professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche, AOU “G.Martino” - 3 Casa di cura Villa Serena SpA - Palermo
Conoscere la SIDS per prevenirla
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News Cavò G.1, Abrami S.R.1, Pagano G.1, Di Venti G.2, Julieni Andrè Maria3
1 U.O.C. Pronto soccorso pediatrico con OBI, AOU “G.Martino” - 2 U.O.S. Professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche, AOU “G.Martino” - 3 Casa di cura Villa Serena SpA - Palermo
Conoscere la SIDS per prevenirla “La sindrome della morte improvvisa del lattante (Sudden Infant Death Syndrome - SIDS), conosciuta anche come morte in culla (“Crib death”), consiste in un decesso improvviso di un bambino di età compresa tra un mese e un anno, che rimane inspiegato dopo una approfondita indagine, comprensiva di un dettagliato esame delle circostanze e del luogo dove è avvenuta la morte, della revisione della storia clinica e di una autopsia completa.”
La conoscenza della sindrome e la prevenzione sempre più attenta a fatto si negli anni che questo fenomeno sia in declino, in Italia oggi è stimata in circa lo 0,5% dei neonati nati vivi, ovvero 250 nuovi casi di SISD ogni anno.
Il periodo più a rischio è tra 2 e 4 mesi di vita soprattutto nel periodo invernale, se avviene nel 1 mese si parla di morte neonatale prematura improvvisa e inaspettata (SUEND), che rappresenta un fenomeno a sé stante, mentre la SIDS è più rara dopo i 6 mesi di vita
FATTORI DI RISCHIO 
Ogni anno vengono pubblicati sulle riviste scientifiche oltre 200 articoli che riguardano la SIDS. Sono circa 400 le ipotesi eziopatogenetiche formulate per dare una spiegazione a questa sindrome, ma attualmente nessuna di queste ha ottenuto consensi unanimi. Alla sindrome sono stati collegati fattori di rischio e fattori causali. I fattori di rischio sinora identificati per SIDS sono numerosi, ma, quelli noti da più tempo sono:
A.Fattori non modificabili:
•Genetici (sesso, etnia, trasportatore della serotonina)
•Costituzionali (sesso maschile, QT lungo)
• Socio- economici (povertà)
• Sviluppo (basso peso alla nascita, gravidanza)
•Ambientali
B.I fattori di rischio modificabili:
•Posizione prona del bambino
•Fumo
•Condivisione stanza dei genitori
•Alimentazione
•Mancato uso del ciuccio
•Elevata temperatura della stanza in cui il bambino dorme
Altri fattori di rischio di rischio SIDS sono i parti multipli, infatti nei parti gemellari il rischio di SIDS è raddoppiato. Apparentemente il rischio aumentato sembra legato al peso neonatale. Se il peso alla nascita è superiore ai 2500 grammi il rischio SIDS è simile a quello dei bambini nati da parto singolo; tra i gemelli è il più piccolo quello più soggetto a SIDS.
LE CAMPAGNE PREVENTIVE
Per la diffusione delle informazioni inerenti alla prevenzione SIDS sono state attuate in tutto il mondo diverse campagne preventive, con lo scopo di promuovere comportamenti ottimali nei confronti dei neonati.
Negli USA La campagna “Safe to Sleep”, già conosciuta come la campagna "Back to Sleep", destinata ai caregivers - genitori, nonni, zie, zii, babysitter, e a coloro che si occupano di assistere i neonati sulle pratiche per ridurre i rischi della SIDS.
Con attività di collaborazione e partnerships , “Safe to Sleep” ha contribuito a diffondere messaggi di “sonno sicuro” a milioni di persone in tutto il mondo. Inoltre, la ricerca sostenuta e condotta dall'Istituto Nazionale di Salute del Bambino e dello Sviluppo Umano ( Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development - NICHD) di Eunice Kennedy Shriver ha ampliato la nostra conoscenza scientifica per quanto riguarda la SIDS.
Nel 1994 NICHD insieme all'American Academy of Pediatrics, l'Ufficio per la salute materna e infantile dell'amministrazione delle risorse sanitarie e dei servizi, l'Alleanza SIDS e l'Associazione di SIDS e programmi di mortalità infantile hanno lanciato Campagna "Back to Sleep" per informare i genitori ei caregivers sulle migliori pratiche per ridurre il rischio di SIDS. Oggi la campagna “Safe to Sleep” si basa sui successi di “Back to Sleep” per affrontare SIDS e altre cause di morte infantile correlate al sonno.
Dall'inizio della campagna di prevenzione, i tassi SIDS negli Stati Uniti sono diminuiti di quasi il 50%, rimane tuttavia la principale causa di morte per i neonati Usa.
CAMPAGNA PREVENTIVA IN ITALIA 
Negli ultimi anni anche in Italia grazie alle campagne informative di prevenzione basate sui semplici misure da adottare per una “nanna sicura” per i neonati, si è assistito ad una netta riduzione dei casi di SIDS.
L'art. 4 della legge 2 febbraio 2006, n. 31 invita a promuovere campagne di sensibilizzazione e di prevenzione per garantire una corretta informazione sulle problematiche connesse alla SIDS. 
La Croce Rossa Italiana, organizza dei workshop gratuiti nei quali vengono presentate le "Regole d'oro" per prevenire la SIDS e diffondere lo slogan "Proteggi i bambini, costruisci il loro futuro!".
Una delle campagne italiane più recenti è “Sonno sicuro nei lattanti”, campagna di sensibilizzazione inerente la nanna sicura per neonati.
Per fare prevenzione ed informazione e per aiutare i neo genitori ad una corretta gestione del piccolo, nel punto nascita presso l’Ospedale G. Fracastoro di San Bonifacio, riconosciuto dall’UNICEF “Ospedale Amico del Bambino”, è stato spiegato ai giovani genitori che il principale fattore di rischio risulta la posizione che il bambino assume durante il sonno e che per i bambini che dormono in una posizione supina, il rischio di mortalità è minore di circa dieci volte.
Inoltre, benché le cause della SIDS non siano ancora chiare la campagna di prevenzione “Sonno sicuro nei lattanti” specifica che oltre alla posizione ideale per i neonati, anche altri comportamenti ottimali favoriscono la prevenzione come l’allattamento al seno, evitare l’ipertermia e la suzione del ciuccio, evitare il fumo e garantire un microclima salubre, queste accortezze incidono positivamente e diminuiscono l’incidenza della sindrome.
La prevenzione della morte in culla, secondo le indicazioni del Ministero della Salute:
•il bambino deve essere messo a dormire in posizione supina, ovvero a pancia in su, sin dai primi giorni di vita;
•il bambino dovrebbe dormire nella stanza dei genitori, vicino al loro letto, ma su una superficie separata (culla o lettino);
•la temperatura dell’ambiente dove dorme il bambino non dovrebbe mai essere eccessivamente calda (tra i 18 e i 20 °C), evitando di coprirli in modo eccessivo con vestiti e coperte. L’associazione tra eccesso di calore e SIDS è particolarmente evidente nei bambini che dormono in posizione prona;
•il materasso dovrebbe essere della misura esatta della culla/lettino e sufficientemente rigido. Andrebbe evitato l’uso del cuscino: porre il bambino su superfici eccessivamente morbide (anche trapunte) aumenta il rischio di SIDS;
•il bambino dovrebbe essere sistemato con i piedi che toccano il fondo della culla o del lettino, in modo che non possa scivolare sotto le coperte, che dovrebbero essere ben rimboccate sotto il materasso. Il cosiddetto “sacconanna” può rappresentare una valida alternativa;
•sulla superficie dove dorme il bambino non dovrebbero esserci oggetti, come cuscini, trapunte, piumoni, paracolpi, giocattoli di peluche, cordine, piccoli giochi, che possono soffocare, intrappolare, strangolare, ferire il bambino;
•la condivisione del letto dei genitori non è la scelta più sicura, in quanto può portare a un aumento del rischio di SIDS nei primi mesi, ed è particolarmente pericolosa se viene praticata su un divano, se i genitori sono fumatori, hanno fatto uso di alcol, farmaci, sostanze psicoattive o per altre ragioni non sono in buone condizioni di vigilanza, nelle prime settimane di vita del bambino o se questo è nato pretermine o piccolo per l’età gestazionale;
•l’ambiente deve essere libero dal fumo, quindi non si deve fumare e soprattutto bisogna evitare che altri fumino in casa;
•l’uso del ciuccio durante il sonno ha un effetto protettivo. In ogni caso va proposto dopo il mese di vita, per non interferire con l’inizio dell’allattamento al seno, e sospeso possibilmente entro l’anno di vita, per evitare che disturbi lo sviluppo dei denti. Se il bambino rifiuta il ciuccio non va forzato e, se lo perde durante il sonno, non è obbligatorio riposizionarlo in bocca
Società italiana di Pediatria, Apparent life threatening events, Linea guida diagnostico-assistenziale, Update 2011.
National Institutes of Health Consensus Development Conference on Infantile Apnea and Home Monitoring.
Gazzetta Ufficiale n°272 del 22-11-2014, legge del 2 Febbraio 2016 n°31, articolo1, comma 2: Protocollo di indagini e di riscontro diagnostico nella morte improvvisa infantile.
Mitchell EA. Recommendations for sudden infant death syndrome prevention: a discussion document.
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Review Basile P, Morabito LA, D’Amico F, Lugarà C
Scuola di Specializzazione in Pediatria, Università degli Studi di Messina
Management del paziente pediatrico con intossicazione acuta da etanolo Il consumo di bevande alcoliche è una tematica sempre attuale che interessa in maniera incisiva anche le fasce di età più giovani della società, costituendo pertanto un problema in termini di salute ed ordine pubblico. Un ruolo decisamente negativo viene svolto dal marketing senza scrupoli, che dietro l’alibi dell’uso “moderato e responsabile” di bevande alcoliche è riuscito anche in epoca pandemica ad incentivarne il consumo (si veda la presunta azione benefica e protettiva del resveratrolo contenuto in quantità esigue e non terapeutiche nel vino oppure l’azione disinfettante dell’alcol contro il SARS-CoV-2). Nonostante negli ultimi decenni siano state messe in campo politiche mirate a ridurre l'accessibilità e la disponibilità di bevande alcoliche tra i giovani, l’intossicazione acuta da alcol rappresenta ancora un frequente motivo di accesso ai Pronto Soccorso Pediatrici di tutta Italia. La finalità di questo articolo è di esporre i meccanismi fisiopatologici del danno indotto dall’etanolo e la gestione diagnostica e terapeutica del paziente pediatrico con intossicazione alcolica acuta.
EPIDEMIOLOGIA
In ambito pediatrico, in special modo ad una età inferiore ai 6 anni, l’ingestione di alcol è per lo più di natura accidentale e principalmente correlata al comportamento esplorativo. I prodotti maggiormente coinvolti riguardano soprattutto quelli di uso domestico (es. collutorio, profumi, acqua di colonia, disinfettante per mani, etc.) e bevande alcoliche lasciate incustodite dai genitori. [1,26]
In età preadolescenziale ed adolescenziale le bevande alcoliche maggiormente consumate (consapevolmente) sono birra, vino, aperitivi alcolici, amari e superalcolici. I dati forniti dalle indagini ISTAT hanno messo in evidenza che il consumo di alcol fra i giovani è una pratica frequente: nel 2018 il 9,7% dei maschi e l’8,1% delle femmine di età compresa fra gli 11 e i 15 anni ha dichiarato di aver abitualmente ecceduto nel consumo di alcool. Ancora più drammatici sono i dati relativi all’assunzione di bevande alcoliche negli adolescenti fra i 16 e i 17 anni, che mettono in evidenza un’attitudine al consumo intenzionale nel 48.3% dei ragazzi e nel 49.7% delle ragazze [2]
I dati relativi alla prevalenza, se confrontati con quelli degli ultimi 10 anni, documentano tuttavia un trend in costante diminuzione, verosimilmente legato all’effetto positivo delle campagne di sensibilizzazione e alle normative imposte dai vari governi europei, Italia compresa. Particolare attenzione deve tuttavia essere posta al fenomeno del binge drinking (consumo eccessivo episodico di oltre 6 bicchieri di bevande alcoliche in un’unica occasione), con una prevalenza tendenzialmente in aumento fra gli adolescenti e con picchi massimi raggiunti fra i 18 – 24 anni.
Negli Stati Uniti è stato dimostrato che il consumo eccessivo di alcool ha avuto delle ripercussioni fortemente negative a livello sociale, determinando un aumentata incidenza di incidenti mortali con veicoli, accessi al Pronto Soccorso, episodi di violenza sessuale, risse e gravidanze non pianificate. [3,4]
FISIOPATOLOGIA
L’etanolo viene rapidamente assorbito dallo stomaco e dall’intestino tenue. Il picco dei livelli sierici di etanolo viene raggiunti entro 60 minuti dall’ingestione se l’individuo è stomaco vuoto [5], mentre si ha un picco ritardato fino a 3 ore, ma con un effetto più prolungato nel tempo se l’assunzione è avvenuta a stomaco pieno a causa del rallentamento dell’assorbimento.
Metabolismo: il metabolismo dell’alcol può iniziare già a livello dello stomaco con la conversione dell’etanolo in acetaldeide ad opera di un’isoforma gastrica dell’enzima alcol deidrogenasi (ADH), tuttavia, nella maggior parte dei casi, questo processo si svolge all’interno degli epatociti, dove l’acetaldeide derivata dalla riduzione dell’etanolo funge da substrato per l’enzima NAD+ dipendente acetaldeide deidrogenasi e viene convertita in acido acetico [7].
Una via secondaria inducibile qualora la quantità assunta di etanolo superi le capacità cataboliche delle deidrogenasi è quella del sistema di ossidazione microsomiale (enzima CYP2E1 appartenente a complesso citocromo P450) [8]. La maggior parte dell’etanolo viene metabolizzata ed eliminata dall’organismo, mentre in piccola parte viene eliminato attraverso la sudorazione, le urine e l’aria espirata.
In età pediatrica ed in particolar modo nei bambini di età inferiore ai 5 anni, l’immaturità di questi sistemi enzimatici può interferire con il metabolismo dell’alcol e determinare un rapido aumento dei suoi livelli ematici con conseguente amplificazione degli effetti tossici anche a fronte di dosi inferiori rispetto all’età adulta. [9,10,26]
L’ingestione di 1 g pro Kg di etanolo determina una concentrazione sierica massima pari a 100 mg/dL, valore che viene raggiunto approssimativamente in un adolescente di 50 kg che assume 1-2 bottiglie di birra da 33 cl, 1 bicchiere normale di vino e un bicchierino di liquore [11, 12, 13].
La dose tossica nei lattanti e nei bambini piccoli è pari a 0,4 ml/kg di etanolo al 100% che determina un picco sierico stimato a 50 mg/dL (corrispondente a 0,5 g/L) [14]. La dose pericolosa per la vita che potrebbe causare coma profondo con associata depressione respiratoria è stimata a 4 ml/kg di etanolo al 100%, con picco ematico superiore a 400 mg/dL [15] (vedi figura 1).
L’eliminazione di etanolo in caso di sovradosaggio acuto è costante nel tempo, indipendentemente dai livelli di picco. Negli individui non tolleranti, il calo varia da 10 a 25 mg/dL all’ora [9].
Sebbene il meccanismo dell’azione tossica dell’etanolo non sia del tutto chiarito, gli effetti dannosi legati alla sua assunzione, qui di seguito riportati, possono interessare diversi organi e tessuti:
•Inibizione del sistema nervoso centrale: l’etanolo interagisce con i recettori del GABA presenti a livello del sistema nervoso centrale ed esercita un effetto sedativo simile alle benzodiazepine. Esso interferisce inoltre con la neurotrasmissione eccitatoria controllata dal recettore del glutammato di tipo N-metil-D aspartato (NMDA) ed influenza i canali del calcio, i recettori dopaminergici e dell’adenosina [6,16].
Tali effetti vengono notevolmente amplificati se vengono assunti contemporaneamente agenti sedativi-ipnotici (es. benzodiazepine o barbiturici). Il rapido attraversamento della barriera emato-encefalica da parte dell’alcol induce inoltre alterazioni del comportamento (euforia, disinibizione sociale, sonnolenza, aggressività e nei casi più gravi letargia, stupor e coma);
•Ipoglicemia: a livello metabolico l’alterazione del rapporto fra NAD+ e NADH determina una inibizione della gluconeogenesi con conseguente impiego delle riserve di glicogeno, al cui esaurimento seguirà ipoglicemia (valore soglia: 70 mg/dL) che per tale ragione non può assolutamente essere corretta attraverso la somministrazione di glucagone [17,18, 19].
Nei neonati e bambini piccoli l’ipoglicemia fatale si è verificata con tassi alcolemici inferiori a 100 mg/dL, soglia che generalmente causa lieve ubriachezza in adolescenti e adulti. Valori ipoglicemici importanti possono altresì determinare convulsioni mortali, se non tempestivamente ed adeguatamente trattate. Lo squilibrio NAD+/NADH favorisce la conversione del piruvato in lattato, provocando un’acidosi metabolica lieve o moderata [20]. Fra le altre possibili alterazioni metaboliche ricordiamo l’ipokaliemia, l’ipomagnesemia, l’ipocalcemia e l’ipofosfatemia;
•Disidratazione: l’etanolo può causare vomito, gastrite, dolore addominale ed ematemesi correlata all’irritazione diretta della mucosa gastrica [21] e poliuria, secondaria all’interferenza con l’azione dell’ormone antidiuretico nel rene [22];
•Ipotermia: quest’ultima complicanza viene indotta dalla vasodilatazione periferica, dalla depressione del SNC con soppressione della capacità di produrre brividi e dallo svenimento in ambienti aperti [6,16]
•L’etanolo può inoltre esercitare il suo effetto tossico a livello epatico, tiroideo, cardiaco e del muscolo scheletrico [23].
ITER DIAGNOSTICO

ANAMNESI
La raccolta dei dati anamnestici è di fondamentale importanza per indirizzare un corretto approccio terapeutico. Una volta accertata l’ingestione di etanolo ed esclusi altri tipi di alcol tossici (es. metanolo, glicole etilenico), è d’uopo concentrare l’attenzione sui seguenti punti:
-Sostanza specifica contenente etanolo;
-Concentrazione di etanolo nella sostanza ingerita*
-Quantità ingerita
-Tempo di ingestione
-Eventuali coingesti (alimenti, farmaci, etc.)
Nei neonati e bambini piccoli generalmente l’ingestione di etanolo è accidentale e pertanto è caratterizzata da assunzioni di piccole quantità riguardanti prodotti di uso domestico (es. colluttorio, disinfettante per mani, profumi, acqua di colonia, etc.) o bevande alcoliche lasciate incustodite dai genitori. È indispensabile valutare anche le abilità psicomotorie del paziente tali da permettere l’accesso ad un determinato prodotto (nel sospetto di violenza su minore).
I pre-adolescenti ed adolescenti assumono spesso bevande alcoliche consapevolmente ed in modo incontrollato, influenzando di conseguenza la quantità di etanolo ingerita. In questi casi è sempre bene prestare attenzione ed accertare la coesistenza di traumi (es. trauma cranico, aggressioni sessuali, etc.), eventuali disturbi comportamentali e di personalità qualora ci sia il sospetto di tentato suicidio, l’eventuale assunzione di droghe o farmaci sedativo-ipnotici (rischio di coma profondo con insufficienza respiratoria).
ESAME OBIETTIVO
L’intossicazione acuta da etanolo (IAE) è per diversi aspetti sovrapponibile a quella da sostanze sedative – ipnotiche. Nei bambini, la triade sintomatologica classica dell’intossicazione acuta severa da etanolo è caratterizzata da ipoglicemia, coma ed ipotermia. Tali alterazioni sono apprezzabili quando i livelli sierici di etanolo eccedono i 50-100 mg/dL.
Altri segni clinici indicativi di un’intossicazione acuta sono rappresentati da:
-Alito dolciastro
-Comportamento alterato, linguaggio confuso, atassia, letargia, stupor, coma, depressione respiratoria, midriasi/miosi, nistagmo, sguardo laterale, convulsioni (quest’ultime soprattutto nei neonati e bambini piccoli)
-Vasodilatazione periferica, che può causare lieve ipotensione, bradicardia/tachicardia, aritmie fino alla severa depressione della funzione cardiaca e al collasso cardiocircolatorio
-Ipoglicemia, diaforesi
-Ipotermia
-Segni di disidratazione causati dal vomito e dalla poliuria. 
CONCENTRAZIONE DI ALCOL NEL SANGUEEFFETTI CLINICI
20 – 50 mg/dLDiminuzione della coordinazione motoria fine
50-100 mg/dLGiudizio alterato; coordinazione alterata
100 – 150 mg/dLDifficoltà con andatura ed equilibrio
150 – 250 mg/dLLetargia, difficoltà a sedersi in posizione eretta e senza assistenza
300 mg/dLComa nel bevitore non abituato
400 mg/dLDepressione respiratoria
Figura 1. Effetti clinici della concentrazione di alcol nel sangue.
L’anamnesi patologica prossima e i reperti obiettivi precedentemente menzionati sono sufficienti per eseguire diagnosi di intossicazione da etanolo. Tuttavia, in base al quadro clinico, è spesso opportuno correlare i seguenti approfondimenti diagnostici:
Determinazione dei livelli di glicemia: Tutti i bambini e adolescenti con stato mentale alterato devono essere sottoposti a misurazioni rapide e seriate della glicemia, i cui livelli possono essere bassi nel caso di IAE.
Livelli di etanolo: la misurazione dei valori di etanolemia è necessaria se si valutano neonati sintomatici e bambini piccoli.
Si rammenta inoltre che il grado di letargia è direttamente proporzionale ai valori sierici di etanolo. Pazienti asintomatici di età superiore a 2 anni o adolescenti minimamente sintomatici non richiedono invece il dosaggio dell’alcolemia.
Elettrolitemia ed emogasanalisi: utile per valutare eventuali disionemie, acidosi metabolica ed eventualmente respiratoria laddove vi sia una importante depressione del SNC.
Il calcolo del gap anionico è inoltre utile nella diagnostica differenziale con l’intossicazione da metanolo o glicole etilenico: in questi ultimi casi è rilevabile un quadro di acidosi metabolica con gap anionico aumentato, diversamente dall’IAE, ove non si osserva una significativa variazione di questo parametro.
Test rapido droghe urinarie e/o dosaggio benzodiazepine urinarie: da considerare nei bambini più grandi e adolescenti se vi sia il sospetto di tentato suicidio o somministrazione intenzionale da parte dei genitori.
Elettrocardiogramma, specie se si sospetta una concomitante overdose da altre sostanze.
TC encefalo e RX torace: nel sospetto di trauma cranico (diagnosi differenziale con eventuale coma o segni neurologici alterati) ed ab ingestis.
OSPEDALIZZAZIONE/OBI
Tutti i bambini sintomatici con segni importanti di intossicazione richiedono osservazione ospedaliera oppure il ricovero.
Bambini più grandi o adolescenti con segni tipici di ubriachezza con recupero totale entro 4-6 h di osservazione possono essere riaffidati al medico Curante.
Neonati o bambini piccoli asintomatici con livelli di etanolemia > 50 mg/dL devono essere sottoposti a test rapido della glicemia, con misurazioni seriate fino a sei ore dopo l’ingestione.
I pazienti asintomatici che manifestano stato mentale alterato o ipoglicemia nel corso delle 6 h di osservazione devono essere ricoverati.
I bambini asintomatici che restano tali dopo 6 h di osservazione dopo aver ingerito modiche quantità di etanolo possono essere dimessi a domicilio.
TRATTAMENTO
In corso di intossicazione acuta da alcol la terapia di supporto costituisce il trattamento principale. Come detto in precedenza, non esiste un antidoto efficace in grado di contrastare direttamente gli effetti avversi dell’etanolo.
La gestione del paziente con IAE prevede i seguenti interventi:
1)Valutazione e stabilizzazione delle vie aeree, della respirazione e della circolazione (ABC) con reperimento di accesso venoso periferico [26].
2)È altresì fondamentale, visto l’elevato rischio di ipotermia, assicurare il mantenimento di un’adeguata temperatura corporea mediante riscaldamento esterno (calore radiante, lampade di calore, coperte calde).
3)Correggere l’ipoglicemia [26]: bolo endovenoso rapido di soluzione glucosata (0,25 g/kg) seguito da infusione continua di soluzione glucosata al 5% o al 10% con un quarto o metà di soluzione fisiologica. Ciò è necessario per ottenere valori glicemici al di sopra di 70 mg/dL e mantenere una normosodiemia. Si ricorda che l’uso del glucagone è inutile in corso di intossicazione da etanolo e che la somministrazione di soluzione glucosata non agevola la clearance dell’etanolo .
4)Assicurare un adeguato reintegro volemico con fluidi isotonici per contrastare la disidratazione (boli di soluzione fisiologica 20 ml/kg se segni di shock previa valutazione di eventuali segni di insufficienza cardiaca)
5)Correggere le eventuali diselettrolitemie rilevate es. ipokaliemia
6)Se vomito, la somministrazione di antiemetici può essere utile nell’evitare eventuali aspirazioni del contenuto gastrico [24,26].
N.B.: In caso di segni di inibizione del SNC, è bene precisare che la combinazione di depressione del sistema nervoso centrale e depressione respiratoria ricorda la sindrome tossica osservata con l’intossicazione da oppioidi. La somministrazione empirica di naloxone e/o di flumazenil si può pertanto rilevare una procedura utile per la diagnosi differenziale e come procedura salvavita, pur tuttavia non essendo capace di agire sulla depressione del SNC indotta dall’etanolo [12,26].
In caso di convulsioni è necessario trattamento adeguato con benzodiazepine.
In caso di grave intossicazione da etanolo (valori sierici > 450 mg/dL) si può rendere necessaria l’emodialisi, eliminando l’agente tossico da tre a quattro volte più velocemente [25].
Nel caso di sospetta somministrazione intenzionale ad un bambino da parte del caregiver è necessario contattare gli assistenti sociali; eseguire una consulenza neuropsichiatrica in caso di tentato suicidio.
In caso di forte irrequietezza, laddove sia necessario l’impiego di un antipsicotico, è preferibile l’impiego dell’aloperidolo per la sua bassa capacità di interazione con l’alcol [26].
Evitare i seguenti prodotti/manovre mediche:
Svuotamento gastrico: l’assorbimento dell’etanolo avviene rapidamente a livello gastrico, per cui l’impiego della lavanda o dell’aspirazione gastrica o la somministrazione di ipecacuana sciroppo, come testimoniato da molti studi, ha evidenziato benefici minimi e un maggiore rischio di aspirazione polmonare con rischio di ARDS. Pertanto, tali procedure non sono raccomandate [26,28,29];
Carbone attivo: l’etanolo non si lega a tale principio attivo, per cui la sua somministrazione in caso di ingestione di etanolo isolato è inutile [27]. Si può valutare una eventuale somministrazione solo nel caso in cui siano state ingerite altre sostanze e laddove il beneficio del carbone attivo superi il potenziale danno derivante dall’aspirazione;
Tiamina: in ambito pediatrico è raramente necessaria l’integrazione di tale vitamina, a differenza degli adulti [26];
Metadoxine: al momento non vi sono studi che dimostrano che l’utilizzo di questo principio attivo migliori i sintomi dell’intossicazione acuta da alcol nella popolazione pediatrica [24].
SINDROME DI HANGOVER (HS): trattamento
Infine facciamo un breve cenno sulla HS, caratterizzata da un insieme di sintomi (mal di testa, astenia, tremori, mialgia, iperemia congiuntivale, fotofobia, tachicardia, ipotensione, vertigini, ansietà, irritabilità) in seguito all’abbassamento dei livelli ematici di etanolo, raggiungendo il picco con valori alcolemici prossimi allo zero e con possibile persistenza della sintomatologia nelle successive 24 h. Le indicazioni generali per risolvere più rapidamente i sintomi sono: assunzione di frutta o succo di frutta e carboidrati complessi per migliorare l’ipoglicemia, farmaci antiacido per nausea e vomito, riposo per contrastare astenia e malessere generale. L’assunzione di caffeina può essere d’aiuto per ridurre quest’ultimi sintomi. Per ridurre mal di testa e mialgia è consigliato l’utilizzo acido acetilsalicilico o FANS (prestare attenzione se vi sono segni clinici suggestivi per gastrite come nausea e dolore addominale), mentre viene sconsigliato l’utilizzo di paracetamolo per evitare il sovraccarico del metabolismo epatico [26].
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Review Italo Farnetani professore ordinario di Pediatria alla Libera Università degli Studi di Scienze Umane e Tecnologiche United Campus of Malta
Pubblicato da Redazione Adnkronos
Estate: 10 regole per i bimbi La migliore prevenzione al mare? "Saper nuotare". E' uno dei punti evidenziati da pediatri italiani e stranieri in un decalogo dedicato alla sicurezza dei bambini durante le vacanze in località marine. Una regola d'oro trasversale a più voci della lista, nella quale si trovano anche suggerimenti per evitare problemi legati a una non corretta esposizione al sole e viene evidenziato il ruolo degli adulti 'sentinelle' dei piccoli. Gli autori della guida per genitori sono gli stessi camici bianchi che hanno certificato con le Bandiere verdi le spiagge a misura di famiglie: quest'anno sono 154, di cui 146 lungo le coste italiane e 8 fuori dai confini nazionali. Il lavoro sul vademecum è stato portato avanti nell'ambito dei convegni delle Bandiere verdi e il documento è disponibile anche in inglese e spagnolo.
"Sin dall'inizio dell'istituzione delle Bandiere verdi l'obiettivo è stato quello di favorire sempre di più la possibilità per i bambini di vivere il mare, sia con la disponibilità di servizi adatti ai piccoli e alle famiglie, sia con il supporto di consigli, indicazioni e raccomandazioni perché la vacanza al mare si svolga in sicurezza", spiega all'Adnkronos Salute Italo Farnetani, professore universitario di Pediatria e ideatore delle Bandiere verdi. Perché si parla di sicurezza? "Perché l'acqua è divertente e favorisce la crescita dei bambini, ma allo stesso tempo nasconde alcuni pericoli", avverte.
"Attraverso un sondaggio svolto a livello internazionale tra i pediatri che collaborano con l'assegnazione delle Bandiere verdi si è dunque deciso di realizzare un decalogo per la sicurezza del bambino al mare. Si tratta di 10 punti che affrontano altrettanti aspetti della vita in acqua e in spiaggia", compreso il viaggio per raggiungerle, "e sono la miglior prevenzione degli incidenti, anche gravi come l'annegamento", sottolinea l'esperto. "L'applicazione dei vari punti del decalogo può essere una valida forma di prevenzione anche degli annegamenti in piscina che coinvolgono bambini piccoli", come emerso da diversi episodi finiti nelle ultime settimane alla ribalta delle cronache.
Ecco dunque il 'Decalogo per la sicurezza del bambino al mare e in piscina':
1) NUOTO. Il principale pericolo in spiagge e piscine è l'annegamento. La migliore prevenzione è sapere nuotare. Per questo motivo, i bambini devono imparare a farlo, già dall'età di 3 anni, ma sotto la guida di insegnanti specializzati, preferibilmente nel mare, perché devono imparare a non avere paura di schizzi, acqua profonda, e a saper nuotare sott'acqua con gli occhi aperti. I bambini che ancora non sanno nuotare devono entrare in acqua sempre con i braccioli.
2) MAI DA SOLI. Tutti i bambini di meno di 12 anni, compresi quelli che sanno già nuotare, devono essere sempre accompagnati in acqua da un adulto che sappia nuotare bene possibilmente restando sempre vicino a loro.
3) SALVATAGGIO. Fondamentale la presenza del servizio di salvataggio, che non deve essere mai interrotto, provvisto di torrette, garantito da bagnini professionisti, con uniformi per facilitare l'identificazione.
4) OCCHIO AI PERICOLI. Fare il bagno seguendo le ordinanze di balneabilità dei sindaci. Evitare le zone ove si praticano sport acquatici, pesca, gare. Rispettare i percorsi, indicati da corde e boe, che delimitano le vie d'ingresso in acqua di natanti o surf. Guardare le bandiere del salvataggio: se è issata la gialla o la rossa non fare il bagno. Indossare sempre le ciabatte quando si usano docce, servizi igienici o si cammina in zone pavimentate.
5) IN ACQUA. Entrare lentamente in acqua, per adattare il corpo alla temperatura del mare, specialmente dopo aver mangiato o quando l'acqua è fredda. Evitare di tuffarsi in mare o in piscina, senza conoscere la profondità dell'acqua per evitare traumi e lesioni.
6) PELLE. Proteggere la pelle dal sole con creme e lozioni protettive (da preferire agli spray) contenenti filtri chimici e fisici, da applicare ogni 2 ore, mai a intervalli inferiori per evitare irritazioni della pelle, nemmeno se il bambino sta a lungo in acqua o suda in abbondanza. Il cappellino è una protezione in più e in caso di eritema solare (scottatura) indossare anche una maglietta in cotone bianco.
7) SOLE E CALDO SENZA PROBLEMI. Attenzione all'esposizione tra le 12 e 17, specialmente quando il bambino ha meno di 4 anni. Chi resta in spiaggia in questa fascia oraria deve far bere frequentemente il bambino, meglio se ogni 20 minuti, e farlo stare all'ombra, almeno a intervalli ravvicinati.
8) IN AUTO. Quando si viaggia in auto con un bambino, mai fermarsi al sole, nemmeno per soste brevi, ma cercare un parcheggio all'ombra.
9) PULIZIA. E' ovunque una garanzia di sicurezza. L'acqua limpida è anche una forma di prevenzione degli incidenti perché permette di identificare gli ostacoli sommersi. La pulizia in spiaggia è dimostrata anche dalla presenza di cestini e bidoni per l'immondizia che non devono essere mai pieni, ma svuotati rapidamente, e dall'assenza nella sabbia di conchiglie rotte, vetri, residui di lattine, rifiuti abbandonati, catrame, alghe non raccolte nella battigia o nella sabbia. Non deve esserci degrado ambientale di nessun genere.
10) FORMAZIONE. Utile far partecipare, durante il mese di aprile e maggio, gli alunni delle scuole elementari e medie (primaria e secondaria) a corsi gratuiti di educazione alla salute sui i rischi potenziali del mare e sui corretti comportamenti nell'ambiente marino.
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