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Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica - Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology |
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Editoriale Giuseppe Micali
Epitalamina tra fantasia e realtà La fantasia è illimitata, per questo motivo Albert Einstein attribuisce ad essa un valore più alto rispetto al sapere, conferendole in tal senso un'importanza superiore della conoscenza. La fantasia è anche la capacità di immaginare situazioni diverse dalla realtà e, nel fantastico orologio biologico di un enzima, le lancette possono rallentare il loro corso fino a fermarsi oppure temporaneamente tornare indietro. • La parte terminale del dna è molto instabile: si degrada chimicamente ed è soggetta a ricombinazioni più frequenti del resto della molecola. • I telomeri sono piccole porzioni di dna che si trovano alla fine di ogni cromosoma. • La funzione dei telomeri è quella di impedire all'elica del dna di sfibrarsi. Essi in pratica agiscono come le protezioni di plastica poste alle estremità dei lacci delle scarpe. • L'attivazione temporanea dell'enzima telomerasi protegge i "lacci" a doppia elica del dna e impedisce loro di sfilacciarsi mantenendo integra l'estremità del cromosoma. Ciò rappresenta la chiave per ritardare o invertire il processo di invecchiamento cellulare. Secondo quanto emerge da innumerevoli studi e ricerche su internet, l'epitalamina, un ormone prodotto dall'epifisi (ghiandola pineale), stimola, senza ombra di dubbio, i cromosomi a produrre telomerasi, favorendo l'allungamento dei telomeri. Sito del professor Vladimir KhavinsonTra fantasia e realtà spunta, da una ricerca nel web, un attivatore della produzione di telomerasi in grado di rallentare il processo di invecchiamento biologico.
Si chiama Epitalon ed è stato sviluppato dallo scienziato russo Vladimir Khavinson dell'Istituto di Gerontologia e Geriatria di San Pietroburgo.
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Original article Cuppari C1, Colavita L1, Ceravolo G1, Salpietro C1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU “G. Martino”, Università degli Studi di Messina
Innovazioni terapeutiche nelle IRR: Bromelina ed Acidi Boswellici, nostra casistica Le infezioni respiratorie ricorrenti (IRR) rappresentano un problema molto comune nei primi anni di vita, e sono causa di frequenti visite ambulatoriali, di pronto soccorso e di ricoveri ospedalieri con significative implicazioni per la famiglia del paziente, il pediatra e la farmaco-economia. È stato stimato che circa il 6% dei bambini di età inferiore ai 6 anni presenti di IRR [1]. La definizione di IRR è ancora dibattuta e complessa; la diagnosi viene comunque posta considerando una serie di criteri di esclusione (assenza di immunodeficienza primaria o secondaria, fibrosi cistica, discinesia ciliare primaria, malformazioni delle vie aeree) e la presenza di almeno uno dei seguenti criteri:
1) > 6 infezioni respiratorie (IR) annuali;
2) > 1 IR al mese che coinvolgono le vie aeree superiori da settembre ad aprile;
3) > 3 IR annuali che coinvolgono le vie aeree inferiori [2-3].
A seconda delle sedi anatomiche interessate, le IR sono classificate in infezioni delle vie respiratorie superiori (otite, rinite, sinusite, faringotonsillite) ed infezioni delle basse vie respiratorie (wheezing, bronchite, bronchiolite, polmonite) [4-5] anche se differenziare nettamente le infezioni delle vie respiratorie inferiori da quelle superiori può essere difficile, perché sintomi e segni si sovrappongono ed entrambe possono essere presenti a allo stesso tempo [6]. Anche la durata e la gravità delle IR dovrebbe essere valutata nella diagnosi; diversi studi hanno dimostrato infatti che le IRR sono spesso transitorie e risolvibili da sole, senza richiedere un trattamento specifico [7].
Molti sono i fattori di rischio che possono essere responsabili nel promuovere e/o causare le IRR come fattori genetici, immunologici (atopia), sociali e ambientali (es. Precoce introduzione ad asilo nido, durata dell'allattamento, dimensione della famiglia, inquinamento atmosferico, animali domestici in casa, esposizione passiva al fumo di sigaretta) [8], antropometrici (es. Età, sesso, prematurità, basso peso alla nascita) e presenza di comorbidità (es. Patologie cardiopolmonari, gastrointestinale, neurologiche) [9-10]. In particolare diversi studi hanno dimostrato che le malattie allergiche possono svolgere un ruolo importante nella promozione e nella la ricorrenza del IR; infatti nei soggetti allergici la fisiologica risposta immunitaria Th1 alle infezioni è ridotta e ciò ne favorisce la predisposizione. È inoltre emerso che i pazienti allergici presentano un numero di infezioni maggiori e più gravi rispetto ai soggetti non allergici [11-12]. La risposta immunologica Th2, tipica dei soggetti allergici, è caratterizzata da una maggiore secrezione di citochine come l’il-4, l’ IL-5 e l’ IL-13 che promuovono, mantengono ed amplificano l'infiammazione di tipo 2[13]. Un ruolo cruciale nell’attivazione dell'immunità di tipo 2 sembra essere svolto anche dall’ IL-33[14].
Visti i diversi endotipi di risposta immunitaria di tipo 2 (high e low), nei soggetti allergici con IRR sarebbe quindi opportuna una valutazione adeguata del profilo immunopatologico [15].
Ad oggi non esiste un biomarcatore disponibile in grado di identificare bambini a rischio di IRR.
Inoltre, le infezioni virali possono aumentare la probabilità di contrarre frequenti IR e ciò è dovuto all’alto numero dei virus circolanti e ai numerosi sottotipi [16]. La ricorrenza delle IR porta poi ad un aumentato rischio di diagnosi errate e, di conseguenza, ad una prescrizione non necessaria di terapia antibiotica, contribuendo inoltre allo sviluppo di alla farmacoresistenza [17]. Per prevenire ed evitare terapie inappropriate e per ridurre l'incidenza di resistenza ai farmaci, sono stati proposti trattamenti alternativi per le IRR [18]. Negli ultimi decenni diversi sono gli studi in letteratura che evidenziano la capacità di alcuni estratti naturali nel regolare l'espressione e la produzione di mediatori infiammatori e dei loro recettori [19].
Bromelina
La bromelina è un enzima proteolitico sulfidrilico presente nelle piante di ananas, che presenta numerose proprietà farmacologiche [20].
Grazie alla bassa tossicità, alta efficienza, alta disponibilità e relativa semplicità di acquisizione, è oggetto di inesauribile interesse in campo farmaceutico; in particolare, grazie alle sue buone proprietà proteolitiche e alla bassissima citotossicità sistemica, è stata utilizzata nel trattamento di malattie infiammatorie, respiratorie, cardiovascolari, disturbi della coagulazione e della fibrinolisi, malattie infettive e molti tipi di cancro. E’ stato dimostrato che la bromelina ha un duplice effetto sulla modulazione della risposta immunologica e a seconda del microambiente cellulare, può determinare sia un aumento che una diminuzione dell'attività/espressione delle stesse molecole coinvolte nella risposta immunitaria [21].
Diversi lavori in letteratura hanno documentato inoltre una significativa attività antibatterica della bromelina [22] su ceppi particolarmente comuni durante le infezioni orali quali Pseudomonas Enterococcus faecalis [23], Streptococcus mutans [24-28], Streptococcus sanguis [25] e Staphylococcus aureus [29]. È stato dimostrato inoltre che la terapia antibiotica combinata con bromelina risulta maggiormente efficace nel trattamento di infezioni come sinusiti, bronchiti, polmoniti, pielonefriti, tromboflebiti, infezioni cutanee [30].
Grazie alla proprietà immunomodulanti la bromelina potrebbe essere un candidato interessante nella gestione delle IRR.
Acidi Boswellici
La boswellia serrata, detta incenso indiano, è un integratore alimentare con proprietà antinfiammatorie, immunomodulatorie, espettoranti, antimicrobiche, antivirali, antitumorali ed analgesiche [31]. Tradizionalmente, la resina oleo-gommosa della Boswellia serrata e della Boswellia carterii è stata utilizzata per il trattamento di malattie reumatiche e altre malattie infiammatorie, tra cui il morbo di Crohn e la colite ulcerosa [31]. Inoltre, gli estratti e gli olii essenziali dell'incenso sono stati usati come agenti antisettici nel trattamento della tosse e dell'asma [31].
La Boswellia agisce inibendo, in modo non redox e non competitivo, la 5-lipossigenasi (5-LOX) e di conseguenza la biosintesi di leucotrieni dall’acido arachidonico nella cascata infiammatoria [31]. La soppressione della sintesi dei leucotrieni tramite l'inibizione di 5-LOX è considerato il principale meccanismo alla base dell'effetto antinfiammatorio dell'acido boswellico come è stato dimostrato in numerosi studi eseguiti su pazienti con colite ulcerosa, sindrome dell'intestino irritabile, bronchite e sinusite[31].
IRR, bromelina e acidi boswellici: la nostra casistica
Lo scopo di questo studio è di valutare gli effetti terapeutici ed immunomodulanti della bromelina e degli acidi boswellici in un gruppo di bambini seguiti per IRR.
A tal fine sono stati reclutati 73 bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni seguiti periodicamente per IRR presso l’ambulatorio di Immunoinfettivologia ed allergologia Pediatrica del Policlinico di Messina e presso gli ambulatori di alcuni pediatri del territorio tra settembre e dicembre 2021.
Tutti i bambini seguiti sono stati sottoposti ad esami di primo livello per indagare assetto immunologico e lo stato atopico (dosaggio di ige totali e prick test per comuni allergeni inalanti). In base allo stato atopico abbiamo suddiviso il campione reclutato in due gruppi: gruppo A costituito da 32 bambini con IRR e atopia (aumentati livelli sierici di ige totali e/o prick test positivi per uno o più allergeni inalatori) e gruppo B costituito da 41 bambini con IRR senza atopia.
Sono stati esclusi i pazienti con anamnesi di malattia polmonare ostruttiva, fibrosi cistica, neuropatie, cardiopatie, diabete e immunodeficienze primarie o secondarie identificate, contatto stretto nelle ultimi due settimane con persone COVID-19 positive. E’ stato inoltre reclutato un gruppo controllo di 21 bambini sani.
E’ stato considerato un periodo di washout di 1 mese da eventuali trattamenti (es. Immunomodulanti, terapia omeopatica, corticosteroidi sistemici, corticosteroidi nasali, antileucotrieni, cromoni), in grado di interferire con i risultati. I genitori e/o tutori dei pazienti hanno visionato un consenso informato e accettato la partecipazione allo studio.
Le caratteristiche dei bambini sono riportate nella tabella 1. 
Tab1. Caratteristiche dei pazienti
Al momento del reclutamento (T0) tutti i bambini sono stati sottoposti a visita pediatrica, valutazione dei parametri vitali e a prelievo ematochimico per emocromo, PCR, ige totali e dosaggio di IL-10 e IL-33. Tutti i bambini inoltre sono stati sottoposti a tampone antigenico rapido che escludeva infezione da SARS-Cov2. I bambini sono stati esaminati successivamente dopo uno (T2) e 3 (T3) mesi; a T3 venivano sottoposti nuovamente a prelievo ematico per dosaggio di HMGB1, IL-10 e IL-33. Ai genitori dei bambini, al momento della dimissione è stata consegnata una scheda dove poter apportare i sintomi (rinorrea, broncospasmo, otalgia, febbre, tosse) presentati dai bambini in questo periodo e l’ eventuale terapia eseguita.
A T0, a 17 Bambini del gruppo A e 20 del gruppo B, prescelti in maniera randomizzata, veniva prescritta terapia con preparato a base di bromelina ed acidi boswellici (flogostopduo una somministrazione al giorno, per 20 giorni al mese per tre mesi consecutivi; il dosaggio del Flogostop veniva calcolato in base al seguente schema: per i bambini fino a 20 kg: 10ml/die ; per chi pesava > 20 kg, veniva somministrato 1 ml ogni cinque chili di peso aggiuntivo).
Durante lo studio i bambini potevano assumere farmaci se necessari come antibiotici, antinfiammatori e antipiretici ad eccezione di immunostimolanti; i bambini allergici inoltre potevano assumere terapia antistaminica (Cetirizina) al bisogno.
I risultati dell’analisi delle schede sui sintomi riportati dai genitori di tutti i bambini arruolati, sono riportate nella figura 1.

Figura 1. Efficacia del trattamento sulla riduzione dei sintomi (rinorrea, febbre, broncospasmo, otalgia e tosse) in bambini con IRR a distanza di 1 (T2) e 3 (T3) mesi (**= p<0.001)
Come si evince, fin dal primo mese di trattamento con Flogostop Duo è stata riportata una significativa diminuzione degli episodi di febbre (T0: 55% vs. T3: 22% p < 0,001), tosse (T0: 87% vs. T3: 11%; p < 0,001), broncospasmo(T0: 77% vs. T3: 18%; p < 0,001), rinorrea (T0: 82% vs. T3: 33%; p < 0,001), ed otalgia (T0: 61% vs. T3: 31%; p < 0,001), rispetto al gruppo dei bambini con IRR non trattati.
Abbiamo poi analizzato l’andamento dei sintomi nel gruppo dei bambini con IRR ed atopia trattati rispetto ai non trattati (figura 2). Dall’analisi delle schede è emersa una progressiva e significativa riduzione degli episodi di broncospasmo (T0: 78% vs. T3: 11%; p < 0,001) e tosse (T0: 81% vs. T3: 9%) nei pazienti atopici trattati rispetto ai bambini atopici non trattati.

Figura 2. Efficacia del trattamento nel gruppo di pazienti atopici sulla riduzione dei sintomi (rinorrea, febbre, broncospasmo, otalgia e tosse) a distanza di 1 (T2) e 3 (T3) mesi (**= p<0.001)
IL-10
A T0 i livelli di IL-10 risultavano significativamente più bassi nel gruppo dei pazienti con IRR rispetto al gruppo controllo di pazienti sani (2.5+/-0.76 vs 6.4+/-1.3), figura 3; in particolare nel gruppo degli atopici risultavano significativamente più bassi rispetto ai non atopici (1.8+/-0.8 vs 3.2+/-0.5)
A T3 i livelli di IL-10 erano significativamente aumentati nel gruppo dei bambini trattati rispetto ai non trattati (4.1+/-0.9 vs 2.3+/-0.4) (figura 4a)

Figura 3. Livelli sierici di IL-10 E IL-33 nei bambini con IRR e nel gruppo controllo sano al momento del reclutamento (T0) (**= p<0.001).
IL-33
A T0 i livelli di IL-33 risultavano significativamente più alti nel gruppo dei pazienti con IRR rispetto al gruppo controllo di pazienti sani (46.6+/-3.98 vs 18.7+/-1.3), figura 3; in particolare nel gruppo degli atopici risultavano significativamente più alti rispetto ai non atopici (54.1+/-2.8 vs 39.5+/-1.2)
A T3 i livelli di IL-33 erano significativamente ridotti nel gruppo dei bambini trattati rispetto ai non trattati (25.3+/-3.1 vs 49.1 +/-0.4) (figura 4b)

Figura 4. A. Livelli sierici di IL-10 in bambini con IRR al momento del reclutamento (T0) e dopo tre mesi di trattamento (T3). B. Livelli sierici di IL-33 in bambini con IRR al momento del reclutamento (T0) e dopo tre mesi di trattamento (T3).
Questo studio è il primo a dimostrare gli effetti antinfiammatori ed immunomodulanti di un prodotto naturale a base di bromelina e acidi boswellici. In conclusione possiamo dire che il trattamento utilizzato ha permesso una significativa riduzione del numero delle recidive con attenuazione marcata della sintomatologia. Risulta interessante anche la correlazione tra il miglioramento clinico e l’aumento, rispetto ai valori basali, dell’il 10, la citochina che favorisce, entrando in molteplici circuiti di regolazione l’omeostasi immunocitochinica. Pure significativo il comportamento dell’il33 i cui livelli risultavano ridotti nei soggetti trattati. Tale riduzione ci fa ipotizzare che, prevalentemente per i soggetti a rischio atopico, il trattamento possa favorire l’attenuazione di quel percorso allergico sotterraneo che gradatamente porta alla estrinsecazione clinica delle malattie allergiche.
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Stefano Rossi1, Manuela Baronio1, Luisa Gazzurelli1, Giulio Tessarin1, Michael Colpani1, Giulia Albrici1, Raffaele Badolato1, Silvia Giliani2, Alessandro Plebani1, Vassilios Lougaris1 1Clinica Pediatrica e Istituto di Medicina Molecolare A. Nocivelli, Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali, Università di Brescia e ASST-Spedali civili di Brescia 2Sezione di Citogenetica e Genetica Molecolare, Spedali Civili, Brescia e Istituto di Medicina Molecolare A. Nocivelli, Dipartimento di Medicina molecolare e Traslazionale , Università di Brescia.
Activated PI3K-kinase delta syndrome (apds): dalla genetica alla terapia personalizzata
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Original article Stefano Rossi1, Manuela Baronio1, Luisa Gazzurelli1, Giulio Tessarin1, Michael Colpani1, Giulia Albrici1, Raffaele Badolato1, Silvia Giliani2, Alessandro Plebani1, Vassilios Lougaris1 1Clinica Pediatrica e Istituto di Medicina Molecolare A. Nocivelli, Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali, Università di Brescia e ASST-Spedali civili di Brescia 2Sezione di Citogenetica e Genetica Molecolare, Spedali Civili, Brescia e Istituto di Medicina Molecolare A. Nocivelli, Dipartimento di Medicina molecolare e Traslazionale , Università di Brescia.
Activated PI3K-kinase delta syndrome (apds): dalla genetica alla terapia personalizzata Introduzione
Nel corso dell’ultimo decennio l’avanzamento tecnologico, in particolar modo nell’ambito della genetica e delle biotecnologie, ha reso possibile l’identificazione di nuovi geni causativi di malattia rendendo obbligatoria una rivalutazione della classificazione di numerose nuove patologie rare. Tale approccio ha permesso di includere nella classificazione delle immunodeficienze primitive anche forme con presentazioni cliniche atipiche, non necessariamente definite da un classico difetto della funzionalità immunologica. Infatti, il termine “immunodeficienza primitiva” è stato modificato in “errori congeniti dell’immunità” includendo così numerose patologie caratterizzate da una disregolazione del sistema immunitario, intesa sia come deficit di funzione del comparto immune, che come iper-attivazione dello stesso, cui consegue, in entrambi i casi un fenotipo patologico [1].
Rientra tra queste ultime l’Activated PI3-Kinase Delta Syndrome (APDS), una condizione nella quale specifiche mutazioni in geni codificanti per proteine chiave nei meccanismi di sopravvivenza e proliferazione cellulare, sono responsabili di un’eccessiva risposta del sistema immunitario, con importanti ripercussioni a carico dei diversi comparti dell’immunità e dei meccanismi cellulari ad essa connessi [2].
Basi patogenetiche
L’APDS è un’immunodeficienza primitiva a carattere autosomico dominante, causata da mutazioni a carico di due geni target, PIK3CD e PIK3R1, codificanti per diverse proteine implicate nella via di trasduzione del segnale della fosfoinositide-3-kinasi (PI3K) che, come già anticipato, risulta essere fondamentale per i meccanismi di sopravvivenza e proliferazione cellulare. Le mutazioni causative possono essere di tipo gain-of-function a carico del gene PIK3CD o loss-of-function a carico del gene PIK3R1; indipendentemente dalla natura della mutazione il fenotipo è attivato, come dimostrato dall’iperfosforilazione di alcune proteine target a valle della via di trasduzione del segnale (e.g. S6 e AKT). A seconda che il gene colpito sia PIK3CD o PIK3R1, l’APDS viene classificata in APDS1 o APDS2, rispettivamente [3].
Le mutazioni causative sono spesso acquisite de novo (soprattutto nel caso di PIK3R1) oppure presentano una modalità di trasmissione autosomica dominante (soprattutto nel caso di PIK3CD), in quanto mutazioni in eterozigosi sono sufficienti a determinare la comparsa della sintomatologia clinica e le alterazioni immunologiche tipiche della APDS [3].
I geni responsabili dell’insorgenza della patologia, PIK3CD e PIK3R1, codificano rispettivamente per le due subunità, catalitica e regolatoria, costituenti il complesso della fosfoinositide-3-kinasi (PI3K). Il prodotto del gene PIK3CD, la proteina p110δ, rientra nella classe delle kinasi lipidiche, gruppo cui appartengono anche le proteine p110 e p110 codificate rispettivamente dai geni PIK3CA e PIK3CB. Sebbene accomunate da omogeneità di funzione, queste kinasi presentano un’eterogeneo profilo di espressione, tale per cui il sottotipo δ è espresso prevalentemente nel sistema ematopoietico [4].
L’ attività della subunità catalitica è subordinata alla corretta funzionalità di quella regolatoria con la quale costituisce un complesso funzionale. Esistono 5 tipi di subunità regolatorie, (p85α, p85β, p55α e p55γ e p50α), 3 delle quali, p85α, p55α e p50α, codificate da tre differenti trascritti dello stesso gene, PIK3R1, mentre le rimanenti, p85β e p55γ, codificate rispettivamente dai geni PIK3R2 e PIK3R3 [4].
La subunità regolatoria ha la funzione di inibire l’attività della subunità catalitica e di prevenirne la degradazione a livello del proteosoma [5]. La proteina p110δ, così come ogni altra subunità catalitica, agisce catalizzando l’aggiunta di un fosfato al fosfoinositide 4,5-bifosfato PIP2, generando fosfoinositide 3,4,5-trifosfato (PIP3) quale secondo messaggero; quest’ultimo consente il reclutamento e l’attivazione di molecole contenenti un dominio di omologia alla Pleckstrina (AKT, PDK1 e le TEC kinasi) a livello della membrana plasmatica. La fosforilazione di AKT da parte di PIP3 induce la successiva fosforilazione dei fattori di trascrizione a valle, tra i quali rientrano quelli appartenenti alla famiglia FOXO, GSK3β, e soprattutto mTOR, a sua volta presente sotto forma di due complessi, mTORC1 e 2 [6]. Entrambi i complessi sono coinvolti nelle vie di trasduzione del segnale indispensabili per i meccanismi di sopravvivenza e proliferazione cellulare; tra i target di mTORC1 rientrano il fattore di elongazione 4E-BP e la kinasi ribosomiale S6 (S6K), che fosforila a sua volta la proteina S6 [7]. La conoscenza di questi meccanismi ha reso possibile la messa a punto di saggi funzionali che permettono di valutare in vitro il livello di attivazione della via di PI3K [8,9].
Presentazione clinica
Per quanto l’APDS sia caratterizzata da una presentazione clinica piuttosto variabile, i pazienti affetti esordiscono generalmente con linfopenia di grado variabile ed infezioni respiratorie ricorrenti, presenti sin dalla prima infanzia, come riportato da Coulter et al. [10] in una casistica di 53 pazienti con APDS1. Molti dei pazienti affetti presentano sinusiti ed otiti ricorrenti, così come linfoadeniti e ascessi linfonodali e tendono a sviluppare bronchiectasie (descritte in circa il 60% dei casi) [10]. Seppur con minor frequenza, sono stati sono stati riportati anche episodi di congiuntiviti, ascessi orbitari e delle ghiandole salivari, così come ascessi cutanei da S. aureus ed infezioni gastrointestinali da C. difficile, C. jejuni e S. typhimurium [3].
I batteri più frequentemente identificati come responsabili di infezioni respiratorie sono rappresentati da Streptococcus pneumoniae ed Haemophilus influenzae, mentre più rare sono le infezioni fungine [11].
Gran parte dei pazienti presenta inoltre una forte suscettibilità alle infezioni virali, in particolare quelle causate da virus erpetici (Epstein Barr Virus e Citomegalovirus), che possono risultare in infezioni croniche o infezioni tessuto-specifiche [12,13].
Come riportato nella nostra casistica [8], un’altra manifestazione molto frequente dell’APDS, spesso presente come sintomo d’esordio, è la linfoproliferazione, intesa come linfoadenopatia reattiva, epatomegalia e splenomegalia. Nello specifico, una forma tipica è rappresentata dall’iperplasia nodulare linfoide delle mucose, che interessa soprattutto le vie respiratorie ed il tratto gastrointestinale e si può presentare con sanguinamenti, sintomi ostruttivi, diarrea cronica e malassorbimento [8,14]. Da notare che, in alcuni casi, la presentazione clinica può mimare quella di una very early onset-inflammatory bowel disease (VEO-IBD); tuttavia, nell’APDS il quadro istologico predominante è caratterizzato dalla presenza di iperplasia nodulare linfoide, come descritto precedentemente [15].
Di notevole rilevanza è inoltre la tendenza riscontrata nei pazienti affetti da APDS nel mostrare un’aumentata suscettibilità allo sviluppo di autoimmunità, tra cui principalmente citopenie autoimmuni e sindrome di Evans, che interessano circa il 30% dei pazienti [16]. Lo stato di iperattivazione che caratterizza da un punto di vista molecolare questa patologia può avere anche ripercussioni sulla proliferazione cellulare, predisponendo pazienti affetti da APDS ad un aumentato rischio di sviluppare neoplasie ematologiche, in particolare linfomi B-cellulari con una prevalenza di circa il 20% [17]. Da sottolineare come tale complicanza possa essere alle volte riconducibile ad una inefficace risposta alle infezioni virali (principalmente Epstein Barr Virus) da parte del comparto immunologico dedicato, (linfociti T CD8+ e cellule Natural Killer (NK)) inadeguato nell’arginare l’infezione con conseguente sviluppo di neoplasia EBV-associata [12].
Recentemente sono stati descritti quadri d’esordio atipici, caratterizzati dallo sviluppo di linfoistiocitosi emofagocitica come unica manifestazione clinica, per cui eseguire un test genetico per la ricerca di mutazione in PIK3CD e PIK3R1 in pazienti con questo fenotipo clinico risulta essere determinante nella definizione della diagnosi [18,19]. Caratteristica peculiare, identificata unicamente nella APDS di tipo 2, è la bassa statura dei soggetti affetti [20,21], infatti, mutazioni in eterozigosi nel gene PIK3R1 sono associate a quadri di SHORT syndrome caratterizzata da bassa statura, iperlassità legamentosa, anomalia di Rieger, ritardo nello sviluppo dentario, insulino-resistenza e lipodistrofia parziale [22].
Quadro immunologico
Dal punto di vista immunologico i pazienti affetti da APDS presentano un quadro caratterizzato da una progressiva linfopenia, specialmente a livello dei linfociti B. L’ immunofenotipo esteso dei pazienti affetti da APDS mostra infatti una riduzione di tutte le sottopopolazioni linfocitarie B, eccezion fatta per le cellule B transizionali (CD10+CD38+) e per le cellule CD19hiCD21low, delle quali si riscontra invece un aumento [10,23]. I livelli di immunoglobuline sieriche sono molto variabili, ma non è infrequente riscontrare quadri con ipogammaglobulinemia ed IgM normali o elevate rispetto ai valori di riferimento per età, per cui sovente questi pazienti vengono, in prima analisi, testati per la ricerca di mutazioni associate a sindromi da iper-IgM [8,10,20].
A livello del comparto T, al contrario, il quadro immunologico è piuttosto caratteristico e tale da indirizzare fortemente il sospetto clinico verso l’APDS. L’iperattivazione della via del PI3K porta infatti ad un peculiare quadro di senescenza delle cellule T, in particolare dei linfociti T CD8+, per cui si assiste ad una riduzione delle cellule naïve (CD8+CD45RA+CCR7+) associata ad una espansione delle effector memory (CD8+CD45RA-CCR7-) e delle terminally differentiated (CD8+CD45RA+CCR7-); questo determina un’inversione del rapporto CD4/CD8, tipicamente osservabile in questi pazienti [24]. Associato al fenotipo di senescenza tipico dei linfociti T CD8+, è stato riscontrato un elevato livello di espressione del marker CD57+ , altra peculiarità della patologia [25]. Le cellule NK, seppur numericamente entro i limiti normali, possono in taluni casi presentare un alterato sviluppo maturativo ed un deficit di citotossicità che, sommato al deficit dei linfociti T citotossici, rende tali soggetti altamente predisposti a complicanze conseguenti a infezioni virali [26].
Test funzionali
La conoscenza dettagliata della via di trasduzione del segnale a valle di PIK3 ha permesso la messa a punto di test funzionali in grado di mettere in evidenza l’iperattivazione del pathway dopo il riscontro di mutazioni nuove a carico dei geni PIK3CD e PIK3R1. I test più utilizzati si basano sulla valutazione del livello di espressione intracitoplasmatica delle forme fosforilate delle proteine AKT e S6 mediante saggi citofluorimetrici o western blot [8,27]. Si tratta di test in vitro, non invasivi e altamente informativi che possono fornire risultati nell’arco di pochi giorni. Sebbene attualmente non ancora inclusi nella pratica diagnostica, tali test si rivelano molto affidabili per l’inquadramento della patologia, seppur necessitando dell’indagine genetica per la conferma diagnostica [8].
Terapia
Considerata l’eterogeneità clinica dell’APDS, la terapia è finalizzata al controllo delle principali manifestazioni; nei casi di ipogammaglobulinemia si ricorre al trattamento sostitutivo con immunoglobuline supportato da profilassi antibiotica in presenza di linfopenia ed infezioni ricorrenti [10,20]. La terapia steroidea viene utilizzata nel trattamento delle manifestazioni linfoproliferative ed autoimmuni; diversi farmaci immunosoppressori “steroid sparing” quali Azatioprina, Ciclosporina, Micofenolato Mofetile, Rituximab ed Infliximab sono stati impiegati altresì, con risultati variabili [3].
L’identificazione del ruolo centrale del complesso mTORC1 nella patogenesi dell’APDS ha orientato le scelte terapeutiche verso l’utilizzo della Rapamicina, un inibitore di mTOR.
L’ analisi dei dati condivisi nel registro ESID, effettuata da Maccari et al. [16], evidenzia l’efficacia della Rapamicina nel ridurre l’utilizzo degli steroidi e nel controllo della linfoproliferazione; tuttavia la sua efficacia sembra essere limitata nel controllo delle manifestazioni autoimmuni e dell’enteropatia [16].
Terapia personalizzata
Vista la peculiarità della patologia e gli importanti passi avanti degli ultimi decenni nell’identificazione dei target specifici, nuove molecole sono state sviluppate con l’obiettivo di inibire selettivamente l’iper-attività patologica della p110δ. Al momento sono in corso numerosi trial clinici internazionali per valutare l’efficacia di specifici inibitori della p110δ, l’ Idelalisib, farmaco peraltro già approvato per il trattamento di forme recidivanti di leucemia linfatica cronica e linfomi non-Hodgkin, il Leniolisib ed il Nemiralisib, somministrato per via inalatoria. I primi risultati disponibili hanno mostrato una buona risposta al trattamento sia in termini clinici che immunologici, con una riduzione significativa della linfoproliferazione ed un incremento della quota di cellule naïve, deficitarie nei suddetti pazienti [28,29].
Da sottolineare che attualmente, nei casi più gravi, in cui si è evidenziata la comparsa di degenerazione linfomatosa o scarsa risposta ai trattamenti disponibili, si è ricorso al trapianto di cellule staminali ematopoietiche (HSCT), con percentuale di successo rispettivamente dell’86% e del 68% per APDS 1 e 2. Tuttavia, l’alto grado di complicanze post-trapianto riscontrato, quali anemia emolitica autoimmune, insufficienza renale e linfoistiocitosi emofagoticica (HLH), rendono l’HSCT la scelta terapeutica da riservare ai casi più gravi e refrattari alle altre terapie disponibili [30].
Conclusioni
L’APDS è un’immunodeficienza primitiva di recente identificazione con un fenotipo clinico altamente eterogeneo e diversificato. Per quanto alcune manifestazioni cliniche sommate ad un quadro immunologico altamente suggestivo possano portare gli immunologi più esperti al sospetto di APDS, resta fondamentale il supporto della genetica per l’identificazione della mutazione nei geni target, così da poter formulare la diagnosi definitiva. Sebbene non del tutto distinguibili sulla base dei sintomi, esistono due forme di APDS, APDS 1 e APDS2, definite dal gene target colpito dalla mutazione, PIK3CD e PIK3R1 rispettivamente. Recentemente sono stati messi a punto saggi funzionali in grado di valutare il livello di fosforilazione di proteine target, affidabili ed indicativi di patologia quando correlati a determinate caratteristiche immunofenotipiche e in grado di anticipare l’analisi genetica, che rimane tuttavia il test d’elezione per la formulazione della diagnosi definitiva di APDS. L’identificazione di proteine target del pathway di PI3K ha permesso di sintetizzare molecole specifiche atte ad inibire selettivamente il target desiderato, riducendo così gli effetti collaterali associati alle terapie convenzionali attualmente in uso e valutando l’impiego di una terapia personalizzata per questi pazienti. L’APDS, infatti, rappresenta il prototipo di malattia per l’applicazione di un nuovo approccio diagnostico-terapeutico nel campo degli errori congeniti dell’immunità e delle malattie monogeniche in generale; infatti, il crescente sviluppo ed impiego di terapie target permette di correlare i notevoli benefici in termini di controllo dei sintomi e delle complicanze, con l’assenza di effetti collaterali ed il miglioramento della qualità di vita dei pazienti. 
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case report Foti Randazzese S.1, Toscano F.1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Lattante con SIP in pronto soccorso pediatrico Caso clinico D., 30 giorni, giunge alla nostra attenzione c/o il Pronto Soccorso Pediatrico (PSP) per vomito e disidratazione. ll piccolo è un secondogenito, nato da genitori non consanguinei e a termine da gravidanza normodecorsa ed esitata in parto eutocico, con peso alla nascita di 2990 g e peso alla dimissione di 2980 g. Sospetto clinico di Ittiosi (gentilizio positivo sulla linea paterna), in corso di definizione diagnostica. Negli ultimi 10 giorni arresto della crescita ponderale (-200g) associato a frequenti episodi di rigurgito, che da circa 4 giorni si manifestano ad ogni poppata; ultima evacuazione riferita 3 giorni addietro. Vomito a getto dalla mattina per cui, su indicazione del Pediatria Curante, viene indirizzato c/o il PSP del nostro Nosocomio per gli accertamenti diagnostici e le eventuali cure del caso. Il paziente si presenta in condizioni cliniche generali discrete, con pianto valido in corso di visita, cute xerotica e simil-ittiosica su tutta la superficie corporea, sollevabile in pliche, fontanella normotesa e mucose roseo-pallide; obiettività cardio-toracica nella norma; addome lievemente globoso, mobile con gli atti del respiro, trattabile e non dolente alla palpazione superficiale e profonda su tutti i quadranti, cicatrice ombelicale introflessa; diuresi attiva. In prima istanza, viene reperito accesso venoso periferico, avviata infusione di soluzione fisiologica ed eseguito prelievo ematochimico comprensivo di esame emocromocitometrico, funzionalità epato-renale e pancreatica, elettroliti, glicemia, proteine totali e indici di flogosi, risultato nella norma. Viene altresì eseguita ecografia dell’addome, che documenta “marcata gastrectasia con stomaco repleto di ingesti, … ispessimento della regione pilorica, che presenta DL max di 27 mm, DT di 17 mm e spessore parete max di 4 mm, … mancata progressione del bolo alimentare attraverso il piloro durante tutta la durata dell’esame, reperti compatibili con stenosi ipertrofica del piloro.” (Immagine 1) Viene pertanto eseguito emogasanalisi da sangue venoso, non documentante quadro di alcalosi metabolica ipocloremica e ipokaliemica (pH 7,42, pCO2 43,5 mmHg, Na+ 140 mmo/L, K+ 3,3 mmol/L, Cl- 99 mmol/L, EB 3,9 mmol/L, HCO3- 26,7 mmol/L) e richiesta consulenza chirurgica che pone indicazione a sospensione dell’alimentazione, apposizione di sondino naso-gastrico (SNG), terapia infusionale, monitoraggio clinico e laboratoristico, preparazione per intervento chirurgico e ricovero c/o la nostra U.O.C. di Terapia Intensiva Neonatale.

Immagine 1 Definizione ed Epidemiologia
La stenosi ipertrofica del piloro (SIP) è una patologia tipica del lattante, caratterizzata da ipertrofia dello strato circolare della tonaca muscolare del piloro che comporta un restringimento del lume dell’antro gastrico e conseguente rallentamento dello svuotamento gastrico. La manifestazione clinica tipica è rappresentata da episodi di vomito propulsivo non biliare, definito “a getto”. [1, 2, 3]
L’incidenza va da 2 a 5 nuovi casi su 1000 nati vivi all’anno nella popolazione caucasica, con rapporto M:F di 4:1. Vi è una trasmissione ereditaria di tipo poligenico. [4]
Eziologia e Fisiopatologia
L’esatta eziologia della SIP è ancora sconosciuta. Sono considerati fattori di rischio il sesso maschile, la primogenitura, la razza caucasica e la familiarità per SIP. Essendo molto rara la forma neonatale, è probabile che nel determinismo della patologia possano intervenire diversi fattori ambientali (es. esposizione post-natale all’eritromicina [5], allattamento artificiale, parto pretermine, parto cesareo, fumo in gravidanza, possibile ruolo dell’H. pylori). [1, 2, 3, 6]
La muscolatura pilorica ipertrofica è stata oggetto di numerosi studi che hanno rilevato diverse alterazioni, quali carenza di terminazioni nervose, ridotta sintesi di ossido nitrico e alterazione della funzione delle cellule di Cajal, considerate tutte segni di innervazione muscolare patologica, con difficoltà al rilasciamento del piloro e aumentata sintesi di fattori di crescita, con conseguente stimolo all’ipertrofia delle fibre muscolari fino all’ostruzione dell’antro pilorico. [3]
Clinica
Clinicamente i pazienti affetti da SIP alla nascita sono dei bambini sani ma, intorno alle 3 e le 6 settimane di vita, presentano una sintomatologia caratterizzata da episodi di rigurgito inizialmente sporadici, a seguire ad ogni poppata e che rapidamente progrediscono in vomito “a getto”: vomito propulsivo di tipo alimentare, non biliare, non ematico. Tale condizione si associa a scarso apporto idrico e calorico, disidratazione, calo ponderale e scarsa crescita. Il vomito, inoltre, determina perdita di elettroliti (Na+, K+, H+ e Cl-), con conseguente predisposizione all’alcalosi metabolica ipocloremica-ipokaliemica e deplezione sierica di sodio e potassio. Raramente si può avere ematemesi, probabilmente in seguito ad iniziale quadro di gastrite o esofagite. Il bambino ha sempre fame (“the hungry vomiter”) e può presentare anche stipsi. [2, 3, 6]
Diagnosi [ 2, 3, 6]
Anamnesi familiare e personale: fare attenzione all’età del piccolo paziente e confrontare il peso attuale con i precedenti nelle curve di crescita;
Esame obiettivo: valutare i segni di disidratazione (mucose secche, fontanella depressa, pianto senza lacrime, tachicardia, ridotta diuresi, letargia), il quadro di gravità della stessa e l’eventuale evidenza di ittero (ittero da “fame”). Alla palpazione dell’addome è possibile apprezzare in circa l’85-100% dei casi la “oliva pilorica”, anche se necessita di paziente tranquillo e mani esperte;
Esami di laboratorio: esame emocromocitometrico, funzionalità d’organo, glicemia, elettroliti sierici, bilirubinemia, emogasanalisi (alcalosi metabolica ipocloremica ipokaliemica);
Imaging:
- Ecografia: rappresenta il gold standard per la diagnosi di SIP (sensibilità 99,5%, specificità 100%), da eseguire con sonda ad alta frequenza (6-10 MHz). Criteri diagnostici: spessore della parete pilorica > 4 mm, lunghezza del canale pilorico > 17 mm e diametro pilorico > 14 mm. È possibile rilevare anomalie della peristalsi e dello svuotamento gastrico;
- Rx addome con mdc: raramente riservata nei casi dubbi all’ecografia. Potrebbe mostrare: allungamento del canale pilorico (“string sign”), due binari di bario lungo il canale pilorico creati dalla mucosa compressa (“double-track sign”), parte finale assottigliata del canale pilorico (“beak sign”) e accumulo di mezzo di contrasto prepilorico (“shoulder sign”);
- Esame endoscopico: in rari casi selezionati in cui il restante imaging non sia diagnostico o quando il bambino presenta caratteristiche cliniche atipiche. È gravato da eccessiva invasività e alti costi.
Diagnosi Differenziale [7] (Tabella 1) 
Tabella 1
Management in PSP e Trattamento [6]
Il gold standard terapeutico è rappresentato dalla pilorotomia extramucosa secondo Ramstedt (via open o laparoscopica). Tuttavia la SIP non rappresenta un’urgenza chirurgica, pertanto di primaria importanza è la stabilizzazione del paziente:
-Reidratazione endovenosa e correzione degli squilibri idro-elettrolitici: boli di soluzione fisiologica 10-20 ml/kg nei pazienti con disidratazione moderata-severa;
-Sospensione dell’alimentazione;
-Posizionamento di SNG per prevenire ulteriori episodi di vomito;
-Esami ematochimici ogni 4-6 ore e proseguire o modificare la correzione elettrolitica in base ai risultati.
L’obiettivo è di ottenere una completa correzione dell’equilibrio idro-elettrolitici entro 48 ore. Importante correggere soprattutto i bicarbonati per il rischio di ipoventilazione e/o apnee post-operatorie;
-Stretto bilancio idrico.
Una volta stabilizzato il paziente e ottenuta una completa correzione dell’equilibrio idro-elettrolitico, si procede ad intervento chirurgico. Rialimentazione orale a 6 ore dall’intervento (alcuni autori preferiscono un’attesa maggiore per evitare il vomito e la conseguente possibile inalazione). In alcuni casi, il vomito può persistere per 1-2 giorni dopo l’intervento; se dovesse persistere 5 giorni dopo, sarebbero indicati RX e/o studio del transito. Rappresentano possibili complicanze dell’intervento chirurgico la perforazione del duodeno, l’infezione della ferita chirurgica, il vomito post-operatorio e la piloromiotomia incompleta.
Prognosi
La prognosi della SIP è eccellente se la patologia viene diagnosticata e trattata precocemente. La chirurgia è curativa. La mortalità è bassa. Una diagnosi ritardata può, invece, portare a disidratazione e shock ipovolemico. [8]
Ittiosi e Stenosi Ipertrofica del Piloro: quale correlazione?
La SIP può rientrare anche nel contesto di quadri sindromici, quali l’Ittiosi Recessiva legata all’X (RXLI). Quest’ultima interessa esclusivamente i maschi ed è il secondo tipo più comune di ittiosi (prevalenza di 1/2.000-1/6.000 maschi). Si tratta di un difetto del metabolismo dei lipidi epidermici da mutazioni a carico del gene STS, che codifica per l’enzima steroide-solfatasi, un’idrolasi lipidica dello strato corneo che regola l’omeostasi della permeabilità di barriera cutanea e dello stesso strato corneo. Esistono casi di RXLI sindromica molto più rari, dovuti a delezione di geni contigui al gene STS, che si associano alla sindrome di Kallmann, all’ipogonadismo ipogonadotropo o anche alla SIP. Due studi familiari indipendenti hanno evidenziato una possibile correlazione tra le due condizioni, dovute a probabile difetto genetico contiguo [8, 9], mentre uno studio più recente rileva come, alla luce dell’albero genealogico della famiglia oggetto di analisi, queste due patologie mostrino associazione genetica accidentale, sottolineando come ci siano diverse segnalazioni in letteratura di pazienti con ampie delezioni da ambo i lati del gene STS che non mostrano segni di SIP. [11]
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8. Mørk K., Skari H., Schistad O., Næss PA.: “Surgical treatment of pyloric stenosis”. Tidsskr Nor Laegeforen. 2018 Apr 17; 138(7).
9. Garcia Perez A., Crespo M.: “X-linked ichthyosis associated with hypertrophic pyloric stenosis in three brothers”. Clin Exp Dermatol. 1981 Mar; 6(2): 159-61.
10. Stoll C., Grosshans E., Binder P., Roth M.P.: “Hypertrophic pyloric stenosis associated with X-linked ichthyosis in two brothers”. Clin Exp Dermatol. 1983 Jan; 8(1): 61-4.
11. Bruno L., Bocanegra O., Magnelli N.: “Recessive X-linked ichthyosis associated with hypertrophic pyloric stenosis: a chance occurrence?” Clin Exp Dermatol. 2003 Jan; 28(1): 74-6.
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case report Pellegrino D.F.1, Romeo M.1, Colavita L.1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Reazione avversa alla vaccinazione Paolo, 8 mesi giunge presso il Pronto Soccorso Pediatrico del nostro nosocomio per la comparsa da due giorni di un rash micropapulare eritematoso inizialmente localizzato alle guance (Figura 1), secondariamente esteso anche ad arti, regione del pannolino ed in minor misura al tronco, con risparmio palmo-plantare.  Figura 1. Rash micropapulare eritematoso localizzato al volto
All’anamnesi non venivano riferiti episodi infettivi recenti ma, tre giorni addietro, era stata eseguita vaccinazione per Meningococco B. In PS il bambino si presentava in buone condizioni generali, apiretico, non lamentava prurito. L’ispezione del cavo orale e del faringe mostravano mucose indenni. Il restante esame obiettivo era nella norma eccetto che per la presenza di microadenia sottoangolomandibolare bilaterale. L’alvo veniva riferito regolare.
In prima istanza venivano eseguiti un tampone molecolare per Sars-Cov-2, risultato negativo, ed un prelievo ematochimico per emocromo, PCR, funzionalità epato-renale, elettroliti sierici, proteine totali, albumina, risultato anch’esso nella norma. Pertanto, non veniva somministrata alcuna terapia ed il piccolo veniva dimesso con indicazione a ritornare 48 ore dopo presso l’ambulatorio di Immunoallergologia Pediatrica per eseguire una rivalutazione clinica ed una consulenza specialistica dermatologica.

Figura 2. Rash micropapulare eritematoso agli arti.
Al controllo, le lesioni si presentavano immodificate con papule eritematose rilevate di circa 2-3 mm di diametro, ravvicinate ma isolate agli arti (Figura 2); alle guance si è avuta invece una confluenza delle lesioni precedenti che hanno assunto l'aspetto di placche eritematose. Era inoltre comparso moderato prurito. Alla luce dei dati anamnestici (vaccinazione recente) e delle caratteristiche cliniche, si poneva il sospetto di acrodermatite papulosa o sindrome di Gianotti-Crosti. Veniva quindi eseguito un prelievo ematochimico per emocromo (GR 4.760.000 mmc, Hb 14 g/dl, GB 13.710 mmc (N25%, L 65%, E 5%), PLT 499.000 mmc), PCR, funzionalità epato-renale, sideremia, elettroliti sierici, proteine totali, albumina, immunoglubuline pediatriche (risultati nella norma) e la sierologia virale per sars-cov-2, EBV, CMV, parainfluenza (risultata negativa). Inoltre, veniva effettuata una consulenza dermatologica che confermava il sospetto clinico e poneva indicazione a terapia antistaminica sistemica ed emolliente topica per 20 giorni.
Trascorso tale periodo, Paolo tornava alla nostra attenzione e potevamo osservare una quasi completa risoluzione delle manifestazioni cutanee con rash micropapulare ormai lievemente eritematoso localizzato esclusivamente al viso e agli arti.
Conclusioni e discussione
Siamo di fronte ad una dermatite papulosa acroposta che per le sue caratteristiche fa pensare alla "acrodermatite papulosa infantile di Gianotti-Crosti o sindrome di Giannotti-Crosti". Essa è caratterizzata dall’insorgenza acuta di lesioni papulari o papulo-vescicolari, distribuite simmetricamente. Le sedi più frequentemente colpite sono rappresentate dalle superfici estensorie delle estremità, dai glutei e dal volto.
L’esatta incidenza della sindrome non è nota, anche perché la condizione spesso viene confusa con altre patologie come le forme esantematiche virali aspecifiche. La sindrome si manifesta più comunemente nei bambini di età compresa tra 1 e 6 anni, più raramente negli adolescenti e negli adulti.
L’eziologia è infettiva ed i patogeni più frequentemente associati sono l’EBV e l’HBV. Altri agenti infettivi coinvolti risultano essere i virus epatotropi maggiori e minori, i virus influenzali e parainfluenzali, coxackievirus, rotavirus, il virus della rosolia, adenovirus, enterovirus, VRS, HIV, tra i batteri ricordiamo gli streptococchi β-emolitici, M. pneumoniae, Mycobacterium avium-intracellulare, Bartonella henselae e Borrelia burgdorferi. Inoltre, sono stati descritti casi di Giannotti-Crosti insorti in seguito a vaccinazioni contro HAV, HBV, Hib, difterite-tetano-pertosse, poliomelite, morbillo-rosolia-parotite, BCG e JBV, in un periodo di tempo variabile tra 2 e 21 giorni dalla somministrazione del vaccino stesso. È stato inoltre osservato che quando vengono somministrati vaccini vivi e/o combinati aumenta il rischio di incorrere nella patologia e, secondo alcuni autori, ad accrescere il rischio contribuisce anche la presenza di un’infezione virale in corso al momento della vaccinazione [Tabella 1]. Tuttavia, è importante sottolineare che la sindrome è una complicanza estremamente rara delle vaccinazioni, a risoluzione spontanea. 
Tabella 1. Reports di S. di Giannotti-Crosti associati alle vaccinazioni ed alle infezioni virali. Tratta da Retrouvey M, Koch LH, Williams JV. Gianotti-Crosti syndrome following childhood vaccinations. Pediatr Dermatol. 2013;30:137–8.
La fisiopatologia della sindrome non è ancora nota. Probabilmente essa è l’espressione di una reazione di ipersensibilità ritardata (tipo 4) che coinvolge il derma in risposta ad infezioni o vaccinazioni.
Clinicamente la malattia si manifesta con l’insorgenza improvvisa di multiple papule o papulo-vescicole monomorfe, piatte, fisse, non ipercheratosiche. Esse possono essere normocromiche, rosee, eritematose oppure rosso-brunastre ed il loro diametro varia da 1 a 5 mm (sebbene solitamente isolate, talora possono confluire formando delle placche). Classicamente le lesioni sono distribuite simmetricamente sul volto, sulla superficie estensoria delle estremità e sui glutei. Le manifestazioni a livello del tronco, quando presenti, sono generalmente lievi e transitorie.
Spesso le lesioni sono asintomatiche ma possono associarsi a prurito moderato-severo. Inoltre, il 30% dei pazienti affetti manifesta sintomi prodromici aspecifici tra i quali febbricola, malessere generale, rinorrea, tosse, iperemia faringea e diarrea durante la settimana che precede la comparsa delle lesioni cutanee. All’esame obiettivo sarà possibile apprezzare anche linfoadenopatia cervicale, ascellare o inguinale, mentre il coinvolgimento epatico (epatomegalia) è principalmente associato all’infezione da HBV, CMV ed EBV. Le lesioni cutanee si risolvono solitamente in 2-4 settimane, sebbene possano persistere per diversi mesi.
La diagnosi è fondamentalmente clinica, sebbene possano essere di supporto esami ematochimici, che spesso documentano leucocitosi/leucopenia ed ipertransaminasemia. Si può ricorrere alla biopsia cutanea se il rash si manifesta in forma atipica per caratteristiche e/o localizzazione oppure se persiste per più di 6 mesi. A livello istologico sono presenti rilievi quali spongiosi focale, edema del derma papillare con stravaso degli eritrociti, moderata acantosi, ipercheratosi, paracheratosi con intensa infiltrazione perivascolare di linfociti ed istociti nel derma superiore e dilatazione dei capillari. Le principali condizioni con cui porre in diagnosi differenziale la S. di Giannotti-Crosti sono rappresentate nella tabella 2. 
Tabella 2. Diagnosi differenziali con la S. di Giannotti-Crosti. Tratta da Alexander K.C. Leugn, Consolato Maria Sergi, Joseph M. Lam, Kin Fon Leong. Giannotti-Crosti syndrome (papular acrodermatitis of childhood) in the era of a viral recrudescence and vaccine opposition, World Journal of Pediatrics 2019.
La principale complicanza della sindrome è rappresentata dall’ipo-/iperpigmentazione post-infiammatoria (più frequente fra gli individui di razza nera) che può persistere per mesi ma non esita in cicatrici.
Per quanto riguarda il trattamento della patologia, trattandosi di una condizione benigna e a risoluzione spontanea, nella maggior parte dei casi non occorre alcuna terapia. Tuttavia, quando è presente il prurito è possibile impiegare una terapia topica emolliente ed antipruriginosa, associata a terapia antistaminica sistemica. Alcuni autori, inoltre, suggeriscono l’utilizzo di corticosteroidi topici o sistemici qualora il decorso della patologia sia particolarmente prolungato o nei pazienti con intenso prurito. Ovviamente, se identificata e qualora possibile, è opportuno trattare la condizione sottostante.
La prognosi è eccellente, con autorisoluzione del rash. Non sono frequenti ricadute, sebbene siano state riportate.
Nel caso in esame non è stata dimostrata la presenza di una recente infezione virale, sebbene la ricerca sia stata effettuata in maniera incompleta ma la storia anamnestica (recente vaccinazione antimeningococcica) ci ha guidato verso la diagnosi di sindrome di Giannotti-Crosti secondaria a vaccinazione. Paolo è stato trattato con cetirizina orale per alleviare il prurito e terapia topica emolliente ed abbiamo potuto osservare la quasi completa risoluzione delle manifestazioni cutanee nell’arco di circa 3-4 settimane.
Bibliografia
1. Alexander K.C. Leugn, Consolato Maria Sergi, Joseph M. Lam, Kin Fon Leong. Giannotti-Crosti syndrome (papular acrodermatitis of childhood) in the era of a viral recrudescence and vaccine opposition, World Journal of Pediatrics 2019.
2. Retrouvey M, Koch LH, Williams JV. Gianotti-Crosti syndrome following childhood vaccinations. Pediatr Dermatol. 2013;30:137–8.
3. Dikici B, Uzun H, Konca C, Kocamaz H, Yel S. A case of Gianotti Crosti syndrome with HBV infection. Adv Med Sci.2008;53:338–40.
4. Fastenberg M, Morrell DS. Acral papules: Gianotti-Crosti syndrome. Pediatr Ann. 2007;36:800–4.
5. Chuh AA. Gianotti-Crosti syndrome (papular acrodermatitis). In:Post TW, editor. Waltham: UpToDate; 2019.
6. Brandt O, Abeck D, Gianotti R, Burgdorf W. Gianotti-Crosti syndrome. J Am Acad Dermatol. 2006;54:136–45.
7. Retrouvey M, Koch LH, Williams JV. Gianotti-Crosti syndrome after childhood vaccination. Pediatr Dermatol. 2012;29:666–8.
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case report Fontanarosa I.1, Gironi F.1, Buonocore G.1 1Università degli Studi di Siena, Dipartimento di Medicina Molecolare e dello Sviluppo
Shunt liquorali temporanei: attenzione alle cisti! Abstract
Descriviamo il caso di una neonata di 25+3 settimane di età gestazionale la quale, oltre ad altre frequenti morbilità multiorgano tipiche della prematurità, ha presentato in ottava giornata di vita riscontro di IVH (Intra Ventricular Hemorrhage) bilaterale di III grado con associata componente emorragica parenchimale. Nei giorni successivi sono state effettuate valutazioni seriate che hanno mostrato un peggioramento del quadro, con comparsa di idrocefalo post-emorragico triventricolare in quarantesima giornata. In quarantatreesima giornata per comparsa di segni ecografici e clinici compatibili con quadro di ipertensione endocranica è stata posta indicazione al posizionamento di reservoir Ommaya. Il decorso post-operatorio è stato regolare, fino alla comparsa in 12a giornata post-operatoria di cisti poroencefalica destra, evidenziata inizialmente tramite ecografia e confermata allo studio RMN. Il reperto riscontrato, rappresenta una rara evenienza descritta in letteratura come possibile conseguenza di disfunzione dello shunt, con prognosi benigna e quadro completamente reversibile dopo rimozione del reservoir.
Caso clinico
M. nasce a 25 settimane + 3 giorni di età gestazionale da taglio cesareo urgente per insorgenza di travaglio in gravidanza gemellare insorta tramite FIVET/ICSI (Fertilization in Vitro and Embrio Transfer/Intra Cytoplasmatic Sperm Injection). In anamnesi gravidica non vi sono patologie di rilievo: madre di 33 anni in buona salute, sierologie materne normali, tampone vagino-rettale non effettuato. All’arrivo in isola neonatale M. appariva apnoica, cianotica e iporeattiva, necessitando di intubazione naso-tracheale e, dopo stabilizzazione, di ricovero presso la Terapia Intensiva Neonatale. Indice di Apgar: 2-5-8, parametri auxologici peso 770 g (50°ct), lunghezza 33 cm (50°ct), COF (Circonferenza Occipito-Frontale) 23 cm (50°ct). Durante la degenza in TIN la neonata ha presentato le classiche patologie respiratorie del prematuro, tra cui Sindrome da Distress Respiratorio Neonatale per cui ha necessitato di somministrazione di una dose di surfattante endotracheale (200 mg/kg) e di ventilazione invasiva con modalità oscillometrica ad alta frequenza per circa 20 giorni e successivamente di SIMV (Synchronized Intermittent Mandatory Ventilation), per 10 giorni poi di CPAP (Continuous Positive Airway Preassure) per 15 giorni ed infine ossigeno libero in termoculla per 30 giorni. Per quanto concerne gli aspetti cardiologici, è stata effettuata chiusura chirurgica del dotto arterioso pervio in 14a giornata di vita.
In 40^ giornata di vita è stata diagnosticata retinopatia del prematuro bilaterale di grado II successivamente regredita. Nel decorso clinico ha presentato alcuni episodi di iperglicemie transitorie e modesta anemia.
In prima giornata di vita l’ ecografia cerebrale mostrava: “Povertà dei giri compatibile con la bassa età gestazionale. Linea mediana in asse. Corpo calloso e cervelletto normovisualizzati. Cavum septi e cavum vergae. Ventricoli laterali con plessi coroidei globosi, voluminosi e iperriflettenti. Iperecogenicità periventricolare”. (Figura 1) Il quadro risultava dunque compatibile con iniziale processo emorragico. 
In terza giornata di vita l’ecografia di controllo mostrava un’evoluzione del quadro con evidenza di IVH di III grado a sinistra con componente parenchimale e IVH di II grado a destra. Il III ventricolo risultava occupato da echi, con normalità del doppler in arteria cerebrale anteriore. La piccola è stata seguita successivamente con ecografie cerebrali seriate, che in ottava giornata di vita hanno mostrato ulteriore peggioramento con IVH di III grado bilaterale e netta componente parenchimale, in aggiunta ad iniziale dilatazione dei ventricoli laterali. In seguito, le condizioni si sono mantenute stabili, fino al riscontro in 40a giornata di dilatazione triventricolare non tesa, con IR in range (Figura 2). 
Nei giorni successivi, in accordo con parere neurochirurgico, è stato avviato monitoraggio giornaliero clinico, della COF ed ecografico, fino ad evidenziare in 43a giornata deterioramento del quadro generale con segni clinici ed ecografici di ipertensione endocranica (apnee con bradicardie, COF +1cm/24h, IR 0,98 con aspetto bombato ed incremento delle dimensioni ventricolari – Figura 3). 
Si decideva dunque di procedere ad intervento neurochirurgico per posizionamento di reservoir Ommaya. Al controllo ecografico post-intervento il quadro di idrocefalo appariva di entità ridotta, nei giorni successivi le condizioni cliniche si mantenevano stabili con controlli ecografici in miglioramento e senza necessità di deliquorazioni. In 12^ giornata postoperatoria all’ecografia cerebrale si evidenziava comparsa di lesione poroencefalica destra (Figura 4), 
per cui a completamente diagnostico veniva effettuata RMN encefalo che confermava “esito malacico in regione frontale destra in adiacenza della sede del sondino di derivazione” (Figura 5). 
Pertanto, è stato eseguito intervento di rimozione del reservoir Ommaya e i successivi controlli ecografici e di RMN hanno documentato completa scomparsa della lezione. A 18 mesi di vita M. presenta esame neurologico adeguato all’età gestazionale corretta.
Discussione
Una delle più gravi complicanze della prematurità sono le emorragie della matrice germinale e le emorragie intraventricolari, che presentano un’incidenza del 15-20% nei neonati di peso inferiore a 1500g fino ad arrivare al 50% nei neonati di peso inferiore ai 750g (1). In relazione alla sua estensione e alla presenza di idrocefalo, l’emorragia può essere classificata secondo Papile in diversi gradi che correlano con prognosi di crescente gravità in termini di deficit cognitivi, disabilità e mortalità (2). In caso di emorragia di III e IV grado si ha un’incidenza dal 25 al 50% di sviluppo di idrocefalo che necessita di posizionamento di shunt liquorali (3). Nei soggetti di peso inferiore a 1500g non si effettua posizionamento di shunt permanenti in quanto gravate da un eccessivo rischio di complicanze, quali perforazione intestinale, infezioni e necessità di secondo intervento di revisione dello shunt (4,5,6).
Si opta dunque per il posizionamento di shunt temporanei, quali il reservoir Ommaya, la cui gestione rappresenta un’importante sfida e richiede un approccio di equipe che includa un neurochirurgo specializzato in ambito pediatrico (3). Le complicanze più comuni sono l’ostruzione dello shunt, disconnessioni meccaniche, iperdrenaggio liquorale e problematiche infettive (7). Un evento descritto in letteratura, inoltre, è la comparsa di cisti poroencefalica correlata a disfunzione dello shunt, la quale ha prognosi benigna e risoluzione completa dopo rimozione del catetere (8,9).
Conclusioni
Sebbene l’intervento di posizionamento di reservoir Ommaya sia una pratica ad oggi piuttosto diffusa nel trattamento dei quadri di idrocefalo post-emorragico, è necessario tenere presente che tale procedura può presentare delle complicanze. Come evidenziato nel nostro caso, una rara evenienza può essere la comparsa di cisti poroencefalica correlata a disfunzione dello shunt, che determina necessità di rimozione del reservoir. Altre complicanze da tenere presente al fine di effettuare un’adeguata sorveglianza sono alterato funzionamento (iperdenaggio, ostruzione, disconnessione) ed infezioni.
Riferimenti
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Original article Cavò G.1, Abrami S.R.1, Tosto G.2, Capodici L.2 1U.O.C. Pronto soccorso pediatrico con OBI, AOU “G.Martino” 2CdS in infermieristica pediatrica “Università degli studi di Messina”
Rooming-in e KangarooMother Care, l'importanza dell’allattamento La parola “rooming-in” significa nel suo termine letterario inglese “alloggio”, in termini pratici e clinici significa tenere in stanza il proprio figlio dopo il parto.
A tal proposito lo scopo principale di questa metodica è quello di continuare il legame tra madre e bambino così com’era in utero, a questo scopo sia l’OMS che l’UNICEF lanciano delle linee guida sulla pratica del rooming-in.
Secondo le Linee Guida dell’UNICEF del 2012, le madri che hanno avuto un parto spontaneo o un taglio cesareo con anestesia epidurale e hanno partorito un neonato a termine e soprattutto sano dovrebbero tenere il proprio bambino a contatto pelle a pelle immediatamente dopo la nascita o non appena possibile.
Per contatto pelle a pelle si intende un contatto immediato e prolungato fra mamma e piccolo, il neonato viene asciugato e messo nudo sul petto della madre, coperto con un telo, almeno un paio d’ore o fino al completamento della prima poppata, durante il contatto infatti il neonato trova il capezzolo grazie all’odore della mamma, dando inizio così alla prima poppata. Da un progetto chiamato“European Network for Public Health Nutrition” di Cattaneo e collaboratori, del 2006, si ricava che madre e neonato spesso concorrono spontaneamente ad un corretto attacco al seno, se tale riflesso non ci dovesse essere, è necessario che gli operatori sanitari diano alla madre delle informazioni solo verbali in modo da favorire un attacco spontaneo.
Questa pratica serve infatti a promuovere l’allattamento al seno o semplicemente alla mamma per prendere in braccio il bambino ogni qualvolta lo desideri, senza adeguarsi agli orari prestabiliti delle poppate e delle visite programmate, tutto questo consente alla mamma di avere un legame indissolubile con il proprio piccolo. Sicuramente il vantaggio più solerte è quello dell’allattamento al seno, ma non solo. Anche l’attaccamento per la mamma è importante perché stimola in lei una reazione già dall’inizio positiva e in tutto questo non vanno dimenticati i papà, è importante che essi siano presenti durante la pratica del rooming-in in modo così da creare un legame armonico e continuo con tutta la famiglia. In un pensiero più ampio rientra la pratica “skin-to-skin” che consiste più precisamente in un contatto pelle-a-pelle tra la mamma e il piccolo. Così come il rooming-in questa metodica serve sia a continuare unita la diade tra madre e figlio, sia ad aumentare la produzione del latte ed, infine, aiuta il bambino a regolare la sua temperatura, offrendogli un miglior adattamento termico dovuto al calore diretto emanato dal corpo della puerpera.
La KangarooMother Care (KMC) costituisce la prima forma di dialogo corporeo fra madre e figlio. In questo modo il genitore impara a manipolare senza timore il proprio figlio e il bambino inizia a esplorare la madre e a conoscerla attraverso il tatto, olfatto e vista.
La KMC è una tecnica semplice che promuove il contatto pelle a pelle tra madre e figlio, dalla quale entrambi ne traggono beneficio. Nel pretermine si possono riscontrare una riduzione dei periodi di agitazione e di motricità non controllata, aumento di sonno quieto, stabilità dei parametri vitali, rapido adattamento alla vita extra-uterina, termoregolazione rapida, riduzione del tempo di ospedalizzazione, inoltre favorisce l’allattamento al seno precoce.
Prima di iniziare la KMC è necessario che gli operatori sanitari valutino attentamente alcuni aspetti che riguardano sia il neonato che i genitori.
Per quanto riguarda il neonato si può iniziare la tecnica non appena è stabile, anche se ancora intubato o con supporto ventilatorio, con alimentazione in corso, se presenta catetere venoso ombelicale, centrale o periferico. Durante la KMC il neonato è nudo, veste solo il pannolino, il cappellino e i calzini.
I genitori devono essere sempre informati circa i vari aspetti della KMC, gli operatori sanitari dovranno spiegare costantemente i vantaggi e gli effetti che tale modalità comporta per loro e per il bambino. Si consiglia ai genitori un abbigliamento comodo con vestiti larghi e che si aprono sul davanti. I genitori devono assumere una posizione comoda, con una sedia morbida, confortevole e reclinabile. L’ambiente deve essere il più possibile tranquillo e rassicurante.
Il neonato deve essere avvolto in un telino prima di spostarlo fuori dall’incubatrice. Porlo nel petto dei genitori in posizione verticale, petto contro petto posizionando la testa in leggera estensione, le braccia e le gambe flesse vicino al tronco e le mani verso il viso e la bocca. Le mani del genitore devono sostenere il neonato a livello della testa, dell’angolo scapolare e del podice. 
L’allattamento al seno
L’allattamento è il processo tramite il quale una donna tramite l’espulsione del latte della ghiandola mammaria nutre il proprio figlio.
L’allattamento, pertanto, risulta una pratica fondamentale di tutti i mammiferi, è una pratica naturale e la scelta principale.
«Il latte materno è il primo vaccino per i bambini: li protegge da malattie potenzialmente mortali e garantisce loro tutto il nutrimento di cui hanno bisogno per sopravvivere e crescere bene». Questo viene affermato dall’OMS e dall’UNICEF. Questi due organi, insieme al Global breastfeeding scorecard analizzano i dati di 194 stati e mostrano che solo il 40% dei bambini da 0 a 6 mesi viene esclusivamente allattato al seno, e in circa 23 stati il tasso di allattamento supera il 60%.
Nel mondo, soprattutto nei paesi industrializzati un’elevata percentuale di bambini non viene allattata al seno. Dai dati che si ottengono dagli studi, si deduce che i bambini che vengono allattati al seno sono i bambini che vivono in paesi in via di sviluppo. Le madri che appartengono a fasce meno agiate allattano i propri figli anche fino a due anni di età, dato che non si verifica per le donne che vivono in paesi industrializzati. Queste disparità sono più diffuse in America centrale e Latina.
Il latte materno è un alimento completo per il neonato fino a 6 mesi
La mammella all’inizio produce il colostro, liquido giallastro ricco di anticorpi; verso il terzo giorno verrà la montata lattea, i seni saranno tesi, turgidi, più caldi rispetto al resto del corpo, possibile anche fastidio o dolore.
Il latte materno contiene:
-carboidrati,
-proteine,
-grassi,
-Calcio
-vitamine, minerali
-acqua nelle proporzioni ottimali
-anticorpi che proteggeranno il neonato dalle infezioni (IgA)
-Stimola la flora batterica intestinale, bifidobatteri
I vantaggi principali per il neonato sono:
-il latte materno è l’alimento ideale ed inimitabile per la sua facile tollerabilità e digeribilità,
-naturale difesa immunitaria grazie alla presenza di anticorpi e quindi prevenzione delle infezioni e delle allergie,
-crescita corporea più regolare (meno tendenza ad ingrassare),
-i neonati sono più tranquilli e dormono di più oltre a far dormire di più le mamme per la produzione di prolattina,
-alcuni studi dimostrano che i bambini allattati al seno hanno meno probabilità di ammalarsi per alcune malattie anche in età adulta,
-nanna più serena e sicura,
-riduce il rischio di diabete, obesità, leucemie, malattie cardiovascolari e sindrome della morte in culla (SIDS).
I vantaggi principali per la mamma sono:
-migliore relazione col neonato
-subito dopo il parto, per il riflesso mammillo-ipotalamico, contrazione ed involuzione più rapida dell’utero, con conseguente riduzione della perdita di sangue
-dopo alcuni mesi, ritorno al peso pregravidico per il maggior consumo di calorie
-riduzione di rischio per il cancro alla mammella e per altri organi della sfera genitale
-risparmio economico
-comodità e praticità: il latte è sempre disponibile e in ogni luogo, non occorre preparare nulla
Bibliografia/Sitografia:
1. Dichiarazione congiunta OMS/UNICEF L’allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L’importanza del ruolo dei servizi per la maternità. OMS, Ginevra, 1989;
2. Kangaroo Mother Care in TIN: efficace e vantaggiosa (Nurse24.it);
3. L’allattamento al seno protegge il bambino per tutta la vita (Fondazione U. Veronesi Magazine)
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Original article Saccà C.1, Leonardi R.1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Il nursing care può influenzare la qualità delle cure? Introduzione
I tagli alle risorse, umane e materiali, in ambito sanitario stanno generando costi notevoli in termini di peggioramento della sicurezza delle cure, scarsa qualità assistenziale e aumento del carico di lavoro sui professionisti del settore, ulteriormente gravata da un clima di crescente complessità degli utenti ricoverati per eventi acuti negli ospedali. Comprendere quali fattori ambientali e organizzativi possano influenzare la completa erogazione di cure infermieristiche o al contrario la possano inficiare può essere utile per agire sul contesto. La composizione dello staff assistenziale, in termini sia quantitativi che qualitativi, ha un impatto sugli esiti dell’assistenza, e questo è stato ampiamente dimostrato sia a livello internazionale che da studi condotti in Italia.
Metodi
Lo studio RN4CAST (Registered Nurse Forecasting) ha coinvolto 12 Paesi europei e 4 nazioni statunitensi con l’obiettivo di evidenziare la relazione positiva sugli esiti dei pazienti adulti rispetto al numero di infermieri (staffing) e la loro formazione (skill mix) [4,6] ed ha dato luogo a diversi successivi studi che hanno approfondito tale associazione. Nello specifico lo studio, di tipo trasversale e osservazionale, ha descritto come un rapporto superiore a 6 pazienti adulti per infermiere incrementi i tassi di mortalità a 30 giorni e l’aumento di missed care (cure mancate/omesse) con ulteriori conseguenze per la salute del paziente e, di conseguenza, la qualità delle cure [1] Le variabili che influenzano la sicurezza e la qualità delle cure erogate sono state oggetto di indagine anche in ambito pediatrico con lo studio RN4CAST@IT-Ped. Tale progetto, anch’esso con disegno osservazionale e trasversale, multicentrico e multilivello è stato condotto attraverso l’utilizzo di survey a tre livelli: organizzativo, infermieristico e utenza (caregiver/paziente maggiorenne). Lo studio si è snodato in due fasi: la prima prevedeva la stesura del protocollo per il comitato etico, lo sviluppo della versione italiana adattata all’ambito pediatrico dei vari strumenti di raccolta dati e l’organizzazione di incontri formativi con gli stakeholders; la seconda fase ha annoverato la raccolta dati, la gestione del flusso di dati e l’analisi. Le aziende coinvolte sono state 13 in Italia, tutte affiliate all’Associazione Ospedali Pediatrici Italiani; in Sicilia ha partecipato l’AORN Civico Di Cristina-Benfratelli di Palermo. Sono stati coinvolti 2769 infermieri dai reparti di degenza ordinaria, con ulteriore interesse verso le patologie croniche ad insorgenza nell’infanzia vista la loro peculiarità per la realtà italiana. I dati sono stati analizzati per area clinica: medica, chirurgica e critica.
Risultati
Survey infermieri
Secondo lo studio RN4CAST italiano in pediatria, il rapporto pazienti infermieri medio nazionale è pari a 6,66 (± 4,6), nello specifico con una media in area chirurgica di 5.93 (±4,67), 5.7 in area medica (±3,33) e 3,55 (±2,68) in area critica. Il rapporto di staffing considerato ideale in area medica è di 4 a 1 mentre in area critica di 1 a 1. In termini formativi: il 48% degli infermieri è in possesso della laurea, il 6% possiede la laurea magistrale, l’1,5% un master di I livello e lo 0,8 di II livello. 
Inoltre, è stata indagata la soddisfazione lavorativa degli infermieri chiedendo quanto siano soddisfatti del loro attuale lavoro in quell’ospedale: in area chirurgica il 26,5% si ritiene insoddisfatto, in area medica il 26,0% e in area critica il 22,9%. L’intenzione di lasciare l’ospedale nel setting pediatrico mette in luce come gli infermieri più esposti a tale fenomeno siano coloro i quali lavorano in terapia intensiva pediatrica [3] e di pediatria generale. Secondo l’RN4CAST, si registra un aumento dell’intenzione di abbandonare la professione fra gli 11 e i 30 anni di servizio.
Le peculiarità dell’ambiente lavorativo e delle condizioni del personale infermieristico hanno un impatto sensibile sugli esiti dei pazienti in termini di qualità e sicurezza dell’assistenza. Secondo il 17% [2] degli infermieri intervistati vi è un livello scadente o basso di qualità delle cure in setting pediatrici. La percentuale di infermieri che hanno dichiarato un livello scadente o mediocre di sicurezza delle cure è pari all’11% [2]. 
Nello studio per adulti, ogni volta che si aumenta di 1 il numero di pazienti assistite dal singolo infermiere rispetto al rapporto ritenuto ideale (6:1) si aumentà del 7% la probabilità di decesso, di omettere le cure e del 16% di essere insoddisfatti sul lavoro [6]
Survey Caregiver
Lo scopo del questionario era misurare la centralità del piccolo paziente per l’assistenza sanitaria, tramite 71 domande si esplora l’esperienza del ricovero ospedaliero dei pazienti pediatrici mediante il punto di vista dei loro genitori o caregiver (comunicazione coi parenti, comunicazione con il bambino, attenzione alla sicurezza ed al comfort, ambiente ospedaliero e valutazione globale).
Hanno risposto 905 caregiver rispetto ai 2152 eleggibili, e l’81,3% erano mamme di età media pari a 38,68 anni di cui il 48,7% in possesso di diploma superiore. I pazienti pediatrici erano per il 55,7% maschi, di età media pari a 8,33 (±5), il 36,4% aveva meno di un anno di vita e la media di giorni in ospedale era pari a 16,92.
Una delle sezioni del questionario esplorava l’esperienza comunicativa del bambino con gli infermieri. I dati rivelano nel dettaglio [4] :
- Il 69,87% (N=332) dichiara che gli infermieri hanno sempre prestato ascolto con attenzione; - Il 67,46% (N=332) dichiara che gli infermieri hanno sempre spiegato le cose in modo comprensibile;
- Il 32,11% (N=327) asserisce che gli infermieri hanno sempre incoraggiato il bambino a fare domande.
Un’altra sezione sondava l’esperienza comunicativa del bambino con il personale medico. I dati mostrano che [4]:
- Il 66,26% (N=329) asserisce che i medici hanno sempre prestato ascolto con attenzione;
- Il 7,92% (N=328) dichiara che i medici hanno sempre spiegato le cose in modo comprensibile;
- Il 33,43% (N=326) afferma che i medici hanno sempre incoraggiato il bambino a porre domande.
Un’altra parte della survey [4] indagava le modalità comunicative del personale sanitario verso il bambino. I dati mostrano che il 57,6% (N=852) sostiene che gli operatori sanitari hanno parlato e si sono relazionati con il bambino in modo sempre adeguato alla sua età.
Conclusioni
I risultati dello studio evidenziano criticità su staffing, qualità e sicurezza dell’assistenza mettendo in luce la necessità di orientare le scelte politiche in termini di fabbisogno di risorse umane verso la qualità e la sicurezza dell’assistenza ospedaliera pediatrica. In particolare, nello studio Europeo sono stati studiati gli infermieri anche sulla base dello skill-mix cioè delle diverse competenze possedute in ragione di una diversa formazione specialistica; questo ha condotto a studiare come la riduzione di queste specializzazioni nel team abbia aumentato il tasso di esiti infausti, diminuendo qualità e sicurezza. Queste variazioni nelle risorse infermieristiche sono importanti predittori della soddisfazione dei pazienti e caregiver e nelle valutazioni degli infermieri sulla qualità e la sicurezza delle cure. Il Royal College of Nursing nel 2013 ha proposto delle linee guida che potessero regolamentare lo staffing nei vari setting pediatrici.
Discussione
Si tratta del primo studio condotto sulla scia dell’RN4CAST adulti anche in ambito pediatrico in tutta Europa, pertanto, l’auspicio è che esso possa dar seguito ad ulteriori studi, anche con disegni diversi, che possano aprire un dibattito sull’organico e sulla successiva qualità e sicurezza delle cure che ci permetta di confrontarci con altri Stati europei e non solo. Possiamo notare che, nonostante ci siano oggettive carenze organiche in termini di risorse umane e sia alta la frequenza di insoddisfazione sul lavoro, gli infermieri cercano sempre di rendere prestazioni con empatia e di porsi nella relazione di aiuto in modo positivo contribuendo alla soddisfazione dei caregiver e dei piccoli pazienti sia in ambito relazionale che educativo.
Riferimenti bibliografici
1.Ball, J.E., Bruyneel, L., Aiken, L.H., Sermeus, W., Sloane, D.M., Rafferty, A.M., Lindqvist R., Tishelman, C., Griffiths, P.; & RN4Cast Consortium. (2018) Post-operative mortality, missed care and nurse staffing in nine countries: A cross-sectional study. International Journal of Nursing Study, 78: 10-15.
2.Cimiotti, J. P., Barton, S., Chavanu, G., Orman, K. E., Sloane, D. M., Aiken, L. H. (2014). Nurse reports on resource adequacy in hospitals that care for acutely ill children. Journal for Healthcare Quality, 36(2): 25–32.
3.Dyo, M., Kalowes, P., Devries, J. (2017) Moral distress and intention to leave: A comparison of adult and paediatric nurses by hospital setting. Intensive and Critical Care Nursing, 36: 42- 48
4.Report Nazionale AOPI Onlus, report dello studio survey infermiere e survey caregiver/paziente maggiorenne
5.Sasso, L, Bagnasco, A, Zanini, M, Catania, G, Aleo, G, Santullo, A, Spandonaro, F, Icardi, G, Watson, R, Sermeus, W. (2017) The general results of the RN4CAST survey in Italy. Journal of Advance Nursing, 73(9): 2028-2030.
6.Sasso, L., Bagnasco, A., Petralia, P., Scelsi, S., Zanini, M., Catania, G., Aleo, G., Dasso, N., Rossi, S., Watson, R., Sermeus, W., Icardi, G., Aiken, L.H. (2018) RN4CAST@IT-Ped: Nurse staffing and children's safety. Journal of Advanced Nursing, 74(6): 1223-1225.
7.Sasso, L., Bagnasco, A., Zanini, M., Catania, G., Aleo, G., Santullo, A., Spandonaro, F., Icardi, G., Watson, R., Sermeus, W. (2016) RN4CAST@IT: why is it important for Italy to take part in the RN4CAST project? Journal of Advance Nursing, 72(3): 485-487.
8.Sochalski, J. (2004) Building a home healthcare workforce to meet the quality imperative. Journal for Healthcare Quality, 26(3): 19-23.
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Original article Cavò G.1, Alparone S.1 1UOC Pronto Soccorso Pediatrico con OBI, AOU "G. Martino", Università degli Studi di Messina
Raccolta delle cellule staminali emopoietiche cordonali Abstract
L’obiettivo di questo elaborato è informare, allo scopo di sensibilizzare e promuovere, sull’argomento relativo alla raccolta delle cellule staminali emopoietiche dal cordone ombelicale. Verranno esaminate le motivazioni che rendono utile e fondamentale una procedura di questo tipo, le modalità di esecuzione della raccolta, le modalità di conservazione del campione ottenuto e i successivi utilizzi.
Parole chiave: sangue cordonale, raccolta cellule staminali, prelievo cellule staminali
Metodo
E’ stata passata in rassegna la letteratura facendo una revisione di questa che consentirà di raccogliere le indicazioni precise per lo svolgimento della procedura e le evidenze scientifiche che dimostrano l’utilità e l’efficacia di tale tecnica.
Il cordone ombelicale, un legame con la vita: Recenti ricerche (ScienceDaily, 2007) hanno portato alla luce il fatto che le cellule staminali emopoietiche prelevate dal cordone ombelicale possono essere equiparate a quelle prelevate da midollo e di conseguenza, possono essere utilizzate per un possibile trapianto con una serie di vantaggi rispetto a quelle precedentemente citate. Le staminali prelevate dal cordone, infatti, daranno minori problemi di compatibilità grazie all’immaturità immunologica di cui sono dotate, permettendo la possibilità di trapianto anche tra persone non perfettamente compatibili; il prelievo inoltre risulta essere molto più semplice da effettuare, non è invasivo, presenta un minore rischio di contaminazione.
Al momento della nascita del bambino, dopo aver effettuato il clampaggio del cordone, a livello del cordone stesso e nella placenta si ha un residuo di sangue che non è più necessario né alla mamma né al neonato e che piuttosto che essere smaltito come rifiuto può essere raccolto. La raccolta può essere eseguita prima del secondamento (espulsione della placenta) o dopo in base alla procedura prevista dall’ospedale in cui si svolge questa pratica. La raccolta deve essere fatta da personale qualificato dopo un parto naturale o dopo un parto cesareo elettivo. Deve essere raccolto un volume adeguato di sangue in modo che le cellule siano sufficienti per un trapianto. Il sangue viene raccolto direttamente in una sacca, “l’unità di sangue cordonale”, attraverso una puntura al cordone.
Tecnica di prelievo: Previo consenso informato da parte dei genitori e conferma dell’idoneità della mamma alla donazione, si procederà, al momento del parto, alla preparazione di tutto l’occorrente necessario allo svolgimento pratico della procedura. Una volta effettuato il taglio ed il clampaggio del cordone si andrà a posizionare la sacca collegata all’ago in basso in quanto il sangue fluirà al suo interno per gravità per poi andare ad individuare il punto della vena ombelicale in cui andare a pungere effettuando una disinfezione. Nel momento in cui si punge la vena la sacca di raccolta comincerà a riempirsi di sangue che si miscela con l’anticoagulante (già preventivamente presente al suo interno). Nel caso in cui non si vede più refluire sangue è possibile effettuare una seconda puntura del cordone con un ulteriore ago, anch’esso collegato alla sacca di partenza, andando così a completare la raccolta. Infine, si va a chiudere la clamp e ad estrarre l’ago dedicandosi alla sacca: questa dovrà essere etichettata, confezionata, conservata e spedita alla banca o centro di raccolta di riferimento.
Sequenza della tecnica:
Fase 1 
Fase 2 e 3 
Fase 4
Fase 5 
Circa il 60% delle sacche di sangue raccolte risultano non idonee, perché non contengono un numero sufficiente di cellule staminali necessarie per il trapianto e le donatrici vengono informate per iscritto dello smaltimento del sangue donato oppure, previo consenso, del loro utilizzo per scopi di ricerca o per la produzione di farmaci.
Quelle valutate idonee per trapianto vengono congelate e conservate in azoto liquido anche per 20 anni.
Normativa Europea: La conservazione può avvenire presso banche pubbliche o private (presenti solo all’estero in quanto il consiglio d’Europa nella raccomandazione numero 8 del 2004 ha sancito che in tutti gli stati membri dell’Unione Europea non è consentita la presenza di banche private per la raccolta autologa). Nel caso in cui si decida di effettuare una donazione di tipo solidaristico e dunque una donazione allogenica o donazione ad uso dedicato (solo nel caso in cui ci sono determinate patologie particolari per cui è previsto l’uso delle staminali prelevate specificatamente dal cordone) la conservazione avviene presso banche pubbliche con spese totalmente a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Chiaramente, secondo le evidenze scientifiche, è preferibile effettuare una donazione a scopo solidaristico poiché è scientificamente provata l’utilità delle sacche conservate in questo modo ed utilizzate per la collettività a differenza della conservazione privata. Quest’ultima, infatti, oltre che un’azione non eticamente concepita bene (Carlo Petrini, 2010), si configura come un gesto che non è detto che possa tornare utile al bambino o alla sua famiglia per un duplice motivo: la sacca verrà conservata a prescindere ma non è detto che consenta il numero di cellule e il volume di sangue adeguato, di conseguenza per un eventuale trapianto potrebbe non rilevarsi sufficiente; non è detto che il soggetto o il suo famigliare, nel corso della sua vita abbia la necessità di un trapianto per cui possa essere necessario l’utilizzo delle staminali prelevate in questo modo, di conseguenza questo si configurerebbe come uno spreco e una mancanza di opportunità di salvezza per chi, invece, ne avrebbe la necessità. Infine, bisogna anche considerare che la conservazione privata richiede che la famiglia sostenga una spesa che alla lunga potrebbe pesare o che per difficoltà economiche magari si dovrà smettere di sostenere, in questo caso la sacca andrebbe persa inoltre la conservazione è per uso autologo, cioè destinata ad un eventuale uso a favore del bambino stesso che lo ha donato, in Italia è vietata poiché né in base alle conoscenze scientifiche né in base alla pratica clinica ne è stata dimostrata la sua reale utilità; anzi, per ottenere migliori risultati nella cura di malattie del sangue (come la leucemia) è preferibile usare cellule provenienti da una persona diversa dal malato, poiché le proprie cellule potrebbero essere potenzialmente compromesse non potendo rappresentare una cura.
Le evidenze scientifiche dimostrano che l’utilizzo delle staminali cordonali permette una ricostituzione del sistema emopoietico ed immunitario consentendo una guarigione di un elevato numero di leucemie, linfomi, patologie immunitarie ed ematiche. Da numerosi studi, è emerso come il trapianto delle staminali prelevate dal cordone dia maggiori speranze di guarigione anche rispetto al trapianto di midollo osseo e che permetta una percentuale di sopravvivenza più alta (del 20% in più rispetto ai soggetti riceventi midollo) oltre che una possibilità di guarigione più immediata vista la disponibilità di sangue già conservato presso le banche apposite (ScienceDaily, 2007).Altri studi ancora hanno dimostrato come il trapianto effettuato con cellule staminali cordonali comporti una bassa percentuale di presentazione della complicanza più comune: la cGVHD, ossia la malattia cronica grave del trapianto contro l'ospite. Si riduce inoltre la probabilità di insorgenza di infezioni, la comparsa di complicanze tardive che determinano il ricovero e l’utilizzo di immunosoppressori (devono essere assunti in quantità maggiori e per un periodo più lungo da coloro che subiscono un trapianto di midollo, per un periodo breve da coloro che ricevono trapianto di cellule cordonali) (ScienceDaily, 2007).
Conclusione
Visti i numerosi vantaggi sia nella fase precedente il trapianto che nel periodo post-trapianto, visti gli effetti positivi sia a breve che a lungo termine per quanto riguarda la guarigione e la diminuzione delle complicanze e degli effetti avversi, viste le maggiori possibilità relative alla compatibilità, visti i risultati sulla salute dei pazienti trattati così, vista la facilità di esecuzione del prelievo e la mancanza di rischi sia per la mamma che per il neonato, visto che la procedura non si presenta né come una tecnica invasiva, né dolorosa, né con limitazioni particolari, si ritiene utile rendere questa procedura un gold standard per il trattamento delle patologie per cui è indicata e di conseguenza si ritiene altrettanto utile renderla una prassi in tutti i punti nascita al momento del parto.
Bibliografia
1. Carlo Petrini. (Luglio 2010). “Umbilical cord blood collection, storage and use: ethical issues”. DOI: 10.2450/2010.0152-09
2. Comitato sui Trapianti d’Organo del Consiglio d’Europa (CD-P-TO). (2017). La conservazione del sangue del cordone ombelicale- una guida per i genitori.
3. Fred Hutchinson Cancer Research Center. (2016, September 7). Umbilical cord blood transplant is associated with high survival rate among high-risk leukemia patients. ScienceDaily.
4. University of Colorado Anschutz Medical Campus. (2016, July 26). Cord blood outperforms matched, unrelated donor in bone marrow transplant. ScienceDaily. From
5. University of Minnesota. (2007, June 8). Cord Blood Comparable To Matched Bone Marrow, According To Research. ScienceDaily. From
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